Giacomo Zanella (1820-1888)


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Voci secrete

Aeree voci, che di concenti
Misterïosi l’orecchio empite ;
Fiochi susurri, sommessi accenti,
                         Donde venite?

Chi di me parla? D’obbliqui detti
Segno mi fanno lingue scortesi?
Fan di me strazio maligni petti
                         Ch’io non offesi?

Chi mi ricorda? Tenue bisbiglio,
Pari a tintinno d’arpa remota.
Forse una cara mormori al figlio
                         Materna nota?

O degli amici, meco vissuti
Sotto le dolci patrie montagne,
A questo core porti i saluti
Che ancor li piagne?

Sia che da’ monti, sia che dall’onde
Amor vi mandi, sia che da’ cieli,
Di caro spirto che si nasconde,
                        Nunzie fedeli,

Voci gentili, per voi maggiore
Sorgo degli anni, sorgo del fato;
Fammisi immenso tempio d’amore
                         Tutto il creato.



Natura e scienza

   Come ritrosa vergine t’involi,
Discortese natura, al guardo umano,
    Che pel lento mutar di mille soli
Di cielo in terra t’ha cercata invano.

    Con giocondo terror vide talvolta
Balenar dall’abisso il tuo sembiante;
    Ma tosto di più nere ombre ravvolta
Scese la notte sul deluso amante.

    Ne’ meandri di tacite spelonche
Chiusa intanto, al gocciar cheto dell’acque,
    Di opaline piramidi e di conche
Gracili vezzi fabbricar ti piacque.

    Nitido specchio e virginal collana
Di agate ti polivi e di cristalli,
    Che poi vaga e fantastica sultana
Franti gettavi alle sopposte valli.

    Troppo scherzasti, improvvida gelosa!
Lo sprezzato cristal l’uomo raccolse,
    L’occhio armandone; e te non sospettosa
Dietro la tenda ad osservar si volse.

    Or ti appiatta, se sai! Splendido, immoto,
Pari a luna, che subita si scopra
    Tra nube e nube al vigile piloto.
Quel grande, infaticato occhio t’è sopra.

    O che ti posi d’assetata foglia
Entro le celle e con materne dita
    Alle provvide stille apra la soglia,
Che l’alba manda a rinverdir la vita;

    O che nel chiuso calice de’ fiori
Segua il cader della feconda polve;
    O che nutra, o che plasmi, o che colori,
Fiso quell’occhio dietro te si volve.

    Innanzi ad esso, come tronco pino,
Giganteggia il capello; e come mare
    Limpidissimo al fondo e cristallino,
Co’ mille abitator la goccia appare.

    Quante in que’ flutti immagini di morte!
Quante fughe e vittorie! In fiera danza
    Dell’universo affacciasi alle porte
Rude la vita e dolorando avanza.

    Tutto muore e rinasce. Invan, natura,
Ne’ mutabili aspetti a noi ti celi;
    Ti tradisce la larva, e non ti fura
Al nostro sguardo immensità di cieli.

    Sali tra mondi e mondi, e non t’avvedi,
Che di una lente armato agli Orïoni
    Questo atomo pon freno ed in sue sedi
Traduce, ospiti immani, Iadi e Trioni.

    Dal novissimo ciel la nebulosa
Scopre di soli tremola famiglia,
    Quale fiammante del color di rosa,
Qual tinto nel pallor della giunchiglia.

    Mille sfere nel rapido vïaggio
Lasciossi addietro, e son mille anni e mille,
    Che piove pel silente etere il raggio
Pur or giunto dell’uomo alle pupille.

    Di lassù che ne porti, o messaggero,
Per tanta via? Se di metalli infusi
    In bollente oceàn parli al pensiero,
E dell’astro natio la tempra accusi;

    Se per l’alto universo intatta via
Al vol dischiudi dell’umano ingegno,
    Fuggon forse le tenebre di pria,
E palese di Dio splende il disegno?

    Tante luci che fan? Che fanno i mondi
Che, come faro d’ignorati porti,
    Ora scemano fiochi e moribondi,
Or con vividi incendi ardon risorti?

    Donde e quando si mosse? A quali prode
Veleggia l’universo? Alme viventi
    Albergano lassù? Liete di lode
All’eterno Valor sciolgon concenti?

    Muore la lampa, e scuro un vel si abbassa
Sullo sguardo dell’uom, che sbigottito
    Scorge per entro l’ombra Iddio che passa
Novi soli a librar nell’Infinito.



Sopra una conchiglia fossile

Sul chiuso quaderno
Di vati famosi,
Dal musco materno
Lontana riposi,
Riposi marmorea,
Dell’onde già figlia,
Ritorta conchiglia.

Occulta nel fondo
D’un antro marino
Del giovane mondo
Vedesti il mattino;
Vagavi co’ nautili,
Co’ murici a schiera;
E l’uomo non era.

Per quanta vicenda
Di lente stagioni
Arcana leggenda
D’immani tenzoni
Impresse volubile
Sul niveo tuo dorso
De’ secoli il corso!

Noi siamo di ieri:
Dell’Indo pur ora
Sui taciti imperi
Splendeva l’aurora:
Pur ora del Tevere
A’ lidi tendea
La vela di Enea.

È fresca la polve
Che il fasto caduto
De’ Cesari involve.
Si crede canuto
Appena all’Artefice
Uscito di mano
Il genere umano!

Tu, prima che desta
All’aure feconde
Italia la testa
Levasse dall’onde,
Tu, suora de’ polipi,
De’ rosei coralli
Pascevi le valli.

Riflesso nel seno
De’ ceruli piani
Ardeva il baleno
Di cento vulcani:
Le dighe squarciavano
Di pelaghi ignoti
Rubesti tremoti.

Nell’imo de’ laghi
Le palme sepolte;
Nel sasso de’ draghi
Le spire rinvolte,
E l’orme ne parlano
De’ profughi cigni
Sugli ardui macigni.

Pur baldo di speme
L’uom, ultimo giunto,
Le ceneri preme
D’un mondo defunto:
Incalza di secoli
Non anco maturi
I fulgidi augúri.

Sui tumuli il piede,
Ne’ cieli lo sguardo,
All’ombra procede
Di santo stendardo:
Per golfi reconditi,
Per vergini lande
Ardente si spande.

T’avanza, t’avanza,
Divino straniero;
Conosci la stanza
Che i fati ti diero:
Se schiavi, se lagrime
Ancora rinserra,
È giovin la terra.

Eccelsa, segreta
Nel buio degli anni
Dio pose la meta
De’ nobili affanni.
Con brando e con fiaccola
Sull’erta fatale,
Ascendi, mortale!

Poi quando disceso
Sui mari redenti
Lo Spirito atteso
Ripurghi le genti,
E splenda de’ liberi
Un solo vessillo
Sul mondo tranquillo,

Compiute le sorti,
Allora de’ cieli
Ne’ lucidi porti
Le terra si celi:
Attenda sull’áncora
Il cenno divino
Per novo cammino.

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