Giosué Carducci (1835-1907)

Funere mersit acerbo

O tu che dormi là su la fiorita
collina tosca, e ti sta il padre a canto;
non hai tra l’erbe del sepolcro udita
pur ora una gentil voce di pianto?

È il fanciulletto mio, che a la romita
tua porta batte: ei che nel grande e santo
nome te rinnovava, anch’ei la vita
fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.

Ahi no! giocava per le pinte aiole,
e arriso pur di vision leggiadre
l’ombra l’avvolse, ed a le fredde e sole

vostre rive lo spinse. Oh, giù ne l’adre
sedi accoglilo tu, chè al dolce sole
ei volge il capo ed a chiamar la madre.

Visione

Il sole tardo ne l’invernale
ciel le caligini scialbe vincea,
e il verde tenero de la novale
sotto gli sprazzi del sol ridea.

Correva l’onda del Po regale,
l’onda del nitido Mincio correa.
Apriva l’anima pensosa l’ale
bianche dei sogni verso un’idea.

E al cuor nel fiso mite fulgore
di quella placida fata morgana
riaffacciavasi la prima età,

senza memorie, senza dolore,
pur come un’isola verde, lontana
entro una pallida serenità.

Pianto antico

L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu, fior de la mia pianta
percossa e inaridita
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,

sei nella terra fredda
sei nella terra negra
nè il sol più ti rallegra
nè ti risveglia amor.

Tedio invernale

Ma ci fu dunque un giorno
su questa, terra il sole?
Ci fùr rose e viole,
luce, sorriso, ardor?

Ma ci fu dunque un giorno
la dolce giovinezza
la gloria e la bellezza
fede, virtude, amor?

Ciò forse avvenne ai tempi
d’Omero e di Valmichi,
ma quei son tempi antichi,
il sole or non è più.

E questa ov’io m’avvolgo
nebbia di verno immondo
è cenere d’un mondo
che forse un giorno fu.

Brindisi funebre

Su ’l viso de l’amore
La rosa illanguidí,
Senza lasciarmi un fiore
La gioventú fuggí.

Lo stuol de l’ore danza
Lontano omai da me:
Con esse è la speranza,
L’illusïon, la fe’.

Gli affetti alti ed intensi
Cui fu negato il fin,
I desidèri immensi
Irrisi dal destin,

Tutti nel mio pensiero
Tutti sepolti io gli ho;
E al fósco cimitero
Custode fósco io sto.

Ma i nervi ancora ho forti:
Beviam, beviamo ancor:
Beviam, beviamo a i morti;
Con essi sta il mio cuor.

Sotto la terra nera
Giacciono ad aspettar;
La dolce primavera
Forse li fa svegliar.

Senton de i freschi venti
L’alito ed il sospir,
Senton fra l’ossa algenti
La verde erba salir.

Lo senti il dolce aprile,
Il sol lo vedi tu?
O pargolo gentile,
Solo tu sei laggiú?

Dal suo lontano avello
Ti parla, o fanciullin,
Il bianco mio fratello
Dal bel castaneo crin?

Gli avi ne i giorni fóschi
Ti vengono a cullar,
L’uno da i colli tóschi,
L’altro dal tósco mar?

O sola e mesta al petto
La madre mia ti tien?
Riposa, o fanciulletto,
Sopra il fidato sen.

Beviamo. Ahi che nel cielo
Impallidisce il sol,
E mi circonda il gelo,
E si sprofonda il suol.

Come uno stuol di gufi
A vecchio monaster,
Tra gli umidicci tufi
Singhiozzano i pensier.

Per questo buio fondo
Chi è chi è che va?
Esiste ancora il mondo,
La gioia e la beltà?

Ne’ lucidi paesi
Ancora esiste amor?
Io giú tra’ morti scesi
Ed ho sepolto il cuor.

Dinanzi alle terme di Caracalla

Corron tra ’l Celio fósche e l’Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di neve.

A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo.

Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch’a piú ardua sfida
levansi enormi.

“Vecchi giganti, – par che insista irato
l’augure stormo – a che tentate il cielo?”
Grave per l’aure vien da Laterano
suon di campane.

Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,
nume presente.

Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, da ’l reclinato
capo de i figli:

se ti fu cara su ’l Palazio eccelso
l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l’evandrio colle, e veleggiando a sera
tra ’l Campidoglio

e l’Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme);

Febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose:
religïoso è questo orror: la dea
Roma qui dorme.

Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra ’l Celio aperte e l’Aventin le braccia,
per la Capena i forti ómeri stende
a l’Appia via.

Su Monte Mario

Solenni in vetta a Monte Mario stanno
nel luminoso cheto aere i cipressi,
e scorrer muto per i grigi campi
mirano il Tebro,

mirano al basso nel silenzio Roma
estendersi, e, in atto di pastor gigante
su grande armento vigile, davanti
sorger San Pietro.

Mescete in vetta al luminoso colle,
mescete, amici, il biondo vino, e il sole
vi si rifranga: sorridete, o belle:
diman morremo.

Lalage, intatto a l’odorato bosco
lascia l’alloro che si gloria eterno,
o a te passando per la bruna chioma
splenda minore.

A me tra ’l verso che pensoso vola
venga l’allegra coppa ed il soave
fior de la rosa che fugace il verno
consola e muore.

Diman morremo, come ier moriro
quelli che amammo: via da le memorie,
via da gli affetti, tenui ombre lievi
dilegueremo.

Morremo; e sempre faticosa intorno
de l’almo sole volgerà la terra,
mille sprizzando ad ogni istante vite
come scintille;

vite in cui nuovi fremeranno amori,
vite che a pugne nuove fremeranno,
e a nuovi numi canteranno gl’inni
de l’avvenire.

E voi non nati, a le cui man’ la face
verrà che scórse da le nostre, e voi
disparirete, radïose schiere,
ne l’infinito.

Addio, tu madre del pensier mio breve,
terra, e de l’alma fuggitiva! quanta
d’intorno al sole aggirerai perenne
gloria e dolore!

fin che ristretta sotto l’equatore
dietro i richiami del calor fuggente
l’estenuata prole abbia una sola
femina, un uomo,

che ritti in mezzo a’ ruderi de’ monti,
tra i morti boschi, lividi, con gli occhi
vitrei te veggan su l’immane ghiaccia,
sole, calare.

Nevicata

Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinereo: gridi,
suoni di vita più non salgono da la città,

non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d’amor la canzon ilare e di gioventù.

Da la torre di piazza roche per l’aere le ore
gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.

Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.


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