Piero Bigongiari (1914-1997)



Ardore e silenzio

I ponti verdi sulla piena soffocano
il tuo richiamo
in un lume di secoli aberrante
dove i cupi giacinti e la tua mano
sprigionano un odore penetrante;

dove l’ombra rinfocola pe’ muri,
ora fiamma ora cenere ora croco,
lo sguardo innamorato ancora un poco
di sé, forse il tuo pure
è un ricordo, il tuo segno è troppo oltre.


È semplice

È tutto cosí semplice quando anche,
o Signore, pregarti è non volere
se stessi, e le parole è cosí facile
che colte cosí presto si corrompano.

Ma perché si lamenta chi era incerto,
colui che non si stacca dalla dolce
sua nascita, colui che non cammina,
chi non ama o non può continuare
ad amare? Perché, Signore, limiti
con l’infinito chi non può volere?

Se io non so pregarti ormai, Signore,
che quando non mi vedo e non mi penso,
ti credo quando pecco,
quando so che mi segui
per non lasciarmi troppo solo. È semplice,
come dal letto balzando nel baratro
della vita, perché tutto matura
lontano dalla nostra cecità
ma a portata di mano.

Piú di cosí è impossibile tradirti
e con questa letizia che non ha
confine col dolore, ma che esso
lasciò per ricordarsi nel tuo regno.
Sempre oltrepasso il segno
per essere sicuro alle mie spalle.
Piú di cosí è impossibile tradirti
e con questa letizia che non ha
confine col dolore, ma che esso
lasciò per ricordarsi nel tuo regno.
Sempre oltrepasso il segno
per essere sicuro alle mie spalle.


Volo di uccelli che sentono la tempesta

D’uno in altro finito nelle azzurre
caverne l’infinito schiuma al vento
che involve nel suo fulgido tormento
il colore dei prati, l’ali eterne
di primavera dei sommessi alati:
mare che non ha requie sulle tombe
umane, dove i petti ansano invano,
mare che spinge il suo sorriso a fiore
strano tra scogli e addii. Ad ali tese
precedono gli uccelli la tempesta,
celesti ne disegnano le corolle,
grigi barlumi insegnano alle zolle
e in alto al nido, fermo
ingorgo di mota, di sterpi, d’amore
ch’altro rapprese e sollevò tra i rami
e le grondaie. Altro percorre il fiume
fin oltre la sorgente, un altro lume
avvena le tue mani, ulcera gli occhi.
Chiamami dalla tua sorda caverna,
io sono in basso, tento il piede, salgo
alla tua verna altissima e non ti odo,
amore penetrato come un chiodo
sul legno delle croci che fioriscono.


Tra la legge e la leggenda

Amo perdere qualcosa, più che per ritrovarlo,
per lasciare una traccia a chi m’insegue,
forse perché amo farmi là raggiungere
dove non sono, mentre guardo il mare
che insinua tra le sue macerie il grido
del gabbiano e un nido tra la ruggine
perduto che galleggia tra le schegge,
al contrario del gran depistatore,
perché so che è difficile seguire
chi, indeciso sulla propria meta,
ma forse proprio in essa pesticciando,
si distrae dietro un viso, si nasconde
dietro il dito che indica le onde
che asciugano e bagnano la riva
del paese natale, la deriva
della luce che liquida ne assale
le sponde e nella mente la ravviva.

Amo confondere il cricchio del tarlo
a un andante di Mozart…, mescolare
il passo del viandante per la via
con quello di chi risale le scale
a semicerchio della nostalgia.

Amo dimenticare il profumo della cedrina
su quello della tua pelle. Del tutto
ricordare la parte più obliata,
del frutto il seme ch’entro sé difende
la sua amarezza in duro tegumento.
Ma se mento, non mento che a me stesso
per dirti la verità che nello stesso
errore è celata, difesa, abbandonata
a crescere in se stessa, nelle proprie
contraddizioni elementari – è lì
che ogni due si unifica, nei suoi
seminali abbandoni.

Amo guardarti
mentre riveli in te una dolcezza
che è quella della fata che nascosta
tra gli alberi occhieggia che nessuno
la segua andando verso il suo tugurio
arredato come una reggia se tu
ne precorri l’augurio coi tuoi occhi,
scheggia impazzita tra gli altri balocchi
del destino che l’uomo chiama vita.

Cammino dietro a poche cose, quelle
meno necessarie, le più volatili,
le meno rare. Forse in mano ad esse
è il codice per leggere il messaggio
che la legge ha lasciato sul tuo tavolo,
semiaperto, semicancellato,
fra terribilità e dolcezza.
Ma se tengo le mani ad un tempo
sui due telai, è che amo riprendere
dal secondo la tela che Penelope
sta sfacendo: è solo con quel filo
– altro non ne ho: l’aspo ne fu rapito –
che sull’altro ritesso la leggenda.
Tu che la leggi strappane la benda
dei segni che l’accertano o la mettono
in forse, perché, vedi, sotto sanguina.



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