Ansaldo Cebà (1565-1623)

Scioglie amor da l’amorose

Scioglie amor da l’amorose
vive rose
di duo labbra vermigliette
parolette, onde ‘l mio core
tocca amore
di soavi favilette.

E ne l’alma amor le scrive
vive vive,
col soave e puro inchiostro
di quell’ostro ond’ a bei detti
vezzosetti,
apre amor di perle un chiostro.

Care note pellegrine,
porporine,
deh chi tanto il cor mi cela,
che non svela i vostri onori,
tra gli ardori,
onde l’alma avvampa e gela?

Ahi che voci così care,
così rare
moverian gli altrui desiri
a sospiri, onde repente
la mia mente
toccherian novi martiri.

Taccia dunque il cor geloso,
timoroso,
qualor Lidia, un dolce detto
leggiadretto al cor mandando
sospirando,
dice: –Caro il mio caretto–.


Dispiegate guance amate

Dispiegate
guance amate,
quelle ceneri angosciose,
onde lento
pentimento
sparge in voi l’antiche rose.

Deh scoprite,
Deh partite
chiare stelle i vostri raggi,
ch’orna il pianto
d’altro vanto
per far scorta a’miei viaggi.

Deh togliete
quella rete
chiome d’or, ch’a me v’ha tolte;
si ch’io pregi
quei dispregi,
c’han le trecce a voi disciolte.

Suela, suela
quel, che cela
dolce bocca il cor profondo;
perch’impari
quant’amari
sian gli amor, ch’accende il mondo.

Apri o labro
di cinabro
del mio cor l’antico velo;
dond’io veggia
quant’ondeggia
chi ’l suo cor non drizza in cielo.

Tocca, tocca
bella bocca
l’alma mia di quello strale,
che per core,
ch’addolore
non pò far piaga mortale.

Ma se chiusa
pur ricusa
la tua faccia a me scoprirsi;
e se sdegni,
che s’ingegni
la mia seco incenerirsi

Quella luce,
che t’induce
far di te si nobil scempio
minor fia
Lidia mia
se non serve a me d’essempio.

Tropp’indegno
so ch’io vegno
a scampar sotto ’l tuo muro:
ma tu sai,
che s’errai
gli occhi tuoi cagion ne furo.

Il tuo sprone
par ragione,
ch’a scampar mi riconforte;
poscia ch’egli
pur fu quegli,
che’l mio cor condusse a morte.

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