Carlo Vallini (1885-1920)

– (infinito) +

La notte era sorta dal mare:
la notte serena ed illune
avea generato il profondo
silenzio e la pace sul mondo;
udivo soltanto l’ansare
dell’acqua sopra le dune
lontane: il profilo malcerto
dei monti apparía di lontano
sul cielo, segnato d’inchiostro
come il profilo d’un mostro
del tempo antidiluviano;
il mare tranquillo e deserto
cingea con alterno gorgoglio
l’immobilità dello scoglio,
e in cielo, non so quale mano
non vista da me, a poco a poco
avea suscitato già il fuoco
latente di cento fiammelle:
brillavano tutte le stelle
del cielo: la notte profonda,
diffusa e confusa per entro
la terra invisibile e l’onda
che s’increspava sul mare
insonne, pareva ascoltare
l’eternità del silenzio.

Un giorno era infine trascorso:
tutto era triste ed uguale
intorno a me: l’immortale
Natura seguiva il suo corso.
Il Tempo girava la ruota
eterna: l’eterno ritorno
del cielo seguía quella traccia
dovuta, che innanzi si caccia
pur sempre la notte ed il giorno:
il Tutto era l’indifferenza
del Tutto: ma l’intima essenza
dell’essere erami ignota.
Come si muore e si vive
all’ombra del Tutto e del Nulla?
Silenzio. Mai nessun Buddha
c’insegnerà come si vive!
L’ignoto non teme la luce
del nostro cervello; il mistero
che nasce con noi ci conduce
per non si sa quale sentiero.
Ci premon le tenebre spesse
di un’unica sorte: di quella
che uomini e cose affratella
nel tedio comune dell’essere.

Questo pensavo, e l’eterno
sgomento gonfiava il mio cuore.
Sentivo, sentivo fraterno
lo scoglio del mare e il rumore
del mare, il lontano stormire
degli alberi a terra, l’aulire
dei boschi profondi col vento,
le stelle che nel firmamento
brillavan d’un tremito d’oro
e lente salivan la via
remota, in eterna armonía,
con ritmo concorde fra loro:
sentivo che tutto era uguale
alla mia spoglia mortale:
sentivo di tendere verso
il Tutto, di esser la parte
minima dell’Universo,
la parte che vede e che sente,
che esiste in eterno e che cade
col tutto continuamente
per una china infinita
senza principio, né fondo,
per ove in eterno si fondono
insieme la Morte e la Vita.

Questo sentivo, supino
sopra lo scoglio del mare.
E parve un tratto alle mie
pupille immobili e fisse
nelle celesti armoníe,
che immensa, tra laceri veli,
raggiasse su un volto divino
la Verità secolare.
Fu come se il mondo salisse
in alto, fu come se i cieli
scendessero: tutte le porte
aveva dischiuso il mistero
al mondo degli uomini, sulla
mirabile luce del Vero.
E in me scese il Tutto ed il Nulla,
la Vita e la Morte.



Un teschio fiorito

E mi ricondussi al pensiero
l’immagine d’un cimitero
abbandonato e romito,
cinto di voli e di stridi
a primavera: ov’io vidi
un teschio umano fiorito.
Da molto tempo, da molto,
nessuno era stato sepolto
di là dalla soglia deserta:
la triste soglia era aperta
sul campo invaso dal folto
dell’erba, da un bosco di erba
selvaggia, da un mare di fiori
campestri, da un mare d’odori
primaverili, da sciami
d’api, da tutta la vita
che non visibili dita
sanno agitare per entro
la terra, da tutta la vita
che nasce e muore in silenzio.
Era quell’eremo pregno
di succhi e d’odori: tra i lacci
dell’erba emergevano bracci
di rade croci di legno.
Ed io procedendo e affondando
in quella selva vivente
ero detestabilmente
poetico e lirico: quando
fra un gruppo d’edere spesse,
aggrovigliate ad un branco
di spine acutissime e nere,
vidi o credei di vedere
un qualche cosa di bianco
che sembrava che m’irridesse.

Un teschio umano era quello
che m’irrideva: ripieno
tutto oramai di terreno
dov’era stato il cervello:
e come da un vaso di fiori,
a render piú tragico e buffo
quel misero avanzo, un gran ciuffo
d’erba ne usciva di fuori
con tal furore, che mosso
parea da quei resti carnosi
per compiere l’apoteosi
pazzesca d’un paradosso.
In quel sorriso supremo
di scherno eterno ben era
visibile quasi la vera
parola che mai non sapremo!

Ch’io creda alla favola trista
del vivere e del morire,
se il Tutto, dato che esista,
si può chiamar Divenire?
Tutto è la grande parola
che sbalordisce e consola
l’anima sciocca e fanciulla.
Tutto vuol dire anche Nulla.
Tutto vuol dire l’immenso
precipitare dei mondi
celesti verso l’ignoto.
Tutto è materia ed è vuoto.
Tutto è rinchiuso nel senso
dell’essere: è quello che vedi
e che non vedi, che credi
e che non credi: è pur quello
che già ti tese un tranello
col farti nascere: e appare
l’eterno mistificatore
nel fare crescere un fiore
e nel far muovere il mare.

Quale sarà la mia sorte
novella dopo la morte?
In quali forme viventi
d’insetti o di chicchi di grano,
o d’altro che viva o non viva,
si trasformerà la passiva
carcassa dell’essere umano?
O forse accadrà ch’io diventi,
se il caso mi toglie all’oblío,
la cosa che soffre ed ha un io,
quella piú vana che esista
nell’Universo, la trista
cosa che chiede perdono,
la cosa umana ch’io sono?
Destino! La libertà
con cui ci deprimi e bistratti
prova che tu non ci tratti
in abito di società!
Tu vedi: ho appena vent’anni
e il mondo non mi diverte,
sebbene non posi da Werther
ucciso dai disinganni;
ho una discreta memoria
e quasi sempre appetito:
non mi tortura il prurito
di un’inafferrabile gloria.
Che cosa, dunque, di meglio
per rendere un uomo felice?
Eppur qualche cosa mi dice
che potrei stare assai meglio.
Ho il benedettissimo vizio
di non creder ciò che si vede:
idea questa, come si vede,
da uomo di poco giudizio.
Aggiungi che a volte non posso
capir le piú semplici cose,
né credere che le cose
basti pensarle all’ingrosso.
Queste stranezze m’han fatto
un posatore ed un orso,
che non sa fare un discorso
e finge d’esser distratto.
«Se non sei nemmeno giocondo
prima dell’esperienza –
m’han detto – a che la presenza
della tua faccia nel mondo?»

O Terra, a te m’abbandono
dopo la morte: di me
fa’ ciò che credi, fuorché
rifarmi quello che sono.


La morte

Morire! Una camera muta
e un letto profondo: lontano
la fiamma d’un vespro sanguigno
che splenda tra i cento comignoli
d’una città sconosciuta:
giacere in quel letto profondo;
udir con un senso inumano
d’angoscia il confuso lontano
eterno fragore del mondo:
sentire che per riposare
un sonno profondo non basta,
ma occorre una pace piú vasta;
sentire che tutto scompare
per sempre, che il sogno dilegua
per sempre, che tutto è fuggito
per sempre, che tutto è finito;
sentire vicina la tregua;
compiere il gesto improvviso:
il sangue che sfugge dal viso,
il senso indicibile, ignoto,
di precipitare nel vuoto,
di precipitare per sempre,
di divenir preda del niente…
un senso di gelo, fugace,
poi nulla. La morte. La pace.

Giacere in quel letto profondo,
già morto: sul volto, il suggello
della Verità spaventosa,
della Verità che si sposa
con l’uomo ch’è uscito dal mondo
e agguaglia il deforme col bello,
e agguaglia l’ignaro e il saccente
nel placido regno del niente:
giacere in quel letto profondo
piú immobile ancora di quando
si dorme: dell’unica buona
immobilità che traspira
dal volto di chi non respira,
dal corpo di chi s’abbandona;
il drappo che va disegnando
piú profondamente le forme
del rigido corpo che dorme
per sempre: poi ecco apparire
la prima dissoluzione
che sforma e dev’essere come
se si continuasse a morire.

Giacere in un letto profondo,
già morto: ecco il solo momento
di vero riposo nel mondo!
Piú tardi la terra ci afferra
e penetra e sbriciola in polvere
e volge in sé stessa ed evolve
e dissipa in preda del vento:
ma il letto sul quale si muore
concede per quarantott’ore
la pace assoluta, infinita.
Nessuna forma di vita
si svolge in quel tempo dal fondo
dell’uomo mutatosi in cosa;
quella materia riposa;
non vive, non vede, non sente:
sfasciandosi gradatamente,
rinunzia all’enorme fatica
di dover essere unita.
Natura, o burattinaia,
come raduni i tuoi fili
a tempo, perché l’uno appaia
e l’altro scompaia! Rigiri
i fili che agli esseri umani
fan muovere i piedi e le mani
e torcere gli occhi e la bocca:
quindi, infallibile, appena
è tempo, il fantoccio a cui tocca
scompare per sempre di scena.
Tarderà molto a finire
questa ridicola farsa?
Io sento che fo da comparsa
e che non ho niente da dire.

A che imaginarmi già estinto?
Parlare senza morire
di questo piacere vuol dire
non esserne bene convinto.
O morte, la nostra miseria
è grande: la nostra materia
che soffre ed invoca l’oblío,
gridando pur sempre: – Non voglio
morire! – s’abbarbica all’io
cosí disperatamente,
come il mollusco aderente
con tutte le forze allo scoglio:
l’io per ciascuna persona
è come un’amante noiosa
che stanca sopra ogni cosa,
ma che tuttavia non si dona;
l’amante che piú non si varia,
compagna in piaceri e malanni
e che, con l’andare degli anni,
diventa vieppiú necessaria;
l’amante un poco volgare
che ha verso di noi mille cure
e che spesse volte neppure
ci si accorge di sopportare.

Questo pensavo: e un divino
tramonto d’oro e di rosa
circonfondea la rocciosa
catena dell’Apennino.

Torna alla pagina: “Le più belle poesie della lingua italiana”