Francesco Berni (ca. 1497-1535)

Al Cardinal Ippolito de’ Medici

Non crediate però, Signor, ch’io taccia
Di voi, perch’io non v’ami e non v’adori,
Ma temo che ’l mio dir non vi dispiaccia.

Io ho un certo stil da muratori
Di queste case qua di Lombardia,
Che non van troppo in su coi lor lavori:

Compongo a una certa foggia mia,
Che, se volete pur ch’io ve lo dica,
Me l’ha insegnato la poltroneria.

Non bisogna parlarmi di fatica;
Ché, come dice il cotal della peste,
Quella è la vera mia mortal nimica.

M’è stato detto mo che voi vorreste
Un stil più alto, un più lodato inchiostro,
Che cantassi di Pilade e d’Oreste;

Come sarebbe, verbigrazia, il vostro
Unico stile, o singulare o raro,
Che vince il vecchio non che ’l tempo nostro.

Quello è ben ch’a ragion tegnate caro,
Però ch’ogni bottega non ne vende:
Ne sète, a dire il ver, pur troppo avaro.

Io ho sentito dir tante faccende
Della traduzïon di quel secondo
Libro, ove Troia misera s’incende,

Ch’io bramo averlo più che mezzo il mondo:
Hovelo detto, e voi non rispondete,
Onde anch’io taccio, e più non vi rispondo.

Ma per tornare al stil che voi volete,
Dico ch’anch’io volentieri il torrei,
E n’ho più voglia che voi non credete;

Ma far rider la gente non vorrei,
Come sarebbe se ’l vostro Gradasso
Leggessi greco in catedra agli Ebrei;

Quel vostro veramente degno spasso,
Che mi par esser proprio il suo pedante,
Quando a parlargli m’inchino sì basso.
 
Provai un tratto a scrivere elegante,
In prosa e ’n versi, e fecine parecchi,
Et ebbi voglia anch’io d’esser gigante;

Ma messer Cinzio mi tirò gli orecchi,
E disse: “Bernio, fa’ pur dell’anguille,
Che questo è il proprio umor dove tu pecchi.

Arte non è da te cantar d’Acchille;
A un pastor poveretto tuo pari
Convien far versi da boschi e da ville”.

Ma lasciate ch’io abbia anch’io danari,
Non sia più pecoraio ma cittadino,
E metterò gli unquanco a mano e’ guari;

Com’ha fatto non so chi mio vicino,
Che veste d’oro e più non degna il panno,
E dassi del messere e del divino.

Farò versi di voi che sfummeranno,
E non vorrò che me ne abbiate grado;
E s’io non dirò il ver, sarà mio danno.

Lascerò stare il vostro parentado
E i vostri papi e ’l vostro cappel rosso
E l’altre cose grandi ov’io non bado:

A voi vogl’io, Signor, saltare addosso,
Voi sol per mio soggetto e tema avere,
Delle vostre virtù dir quant’io posso.

Io non v’accoppierò come le pere
E come l’uova fresche e come i frati,
Nelle mie filastroche e tantafere;

Ma farò sol per voi versi appartati,
Né metterovvi con uno in dozzina,
Perché d’un nome siate ambo chiamati.

E dirò prima di quella divina
Indole vostra, e del beato giorno
Che ne promette sì bella mattina;

Dirò del vostro ingegno, al qual è intorno
Infinito giudizio e discrezione,
Cose che raro al mondo si trovorno;

Onde lo studio delle cose buone
E le composizioni escon sovente,
Che fan perder la scherma a chi compone.

Né tacerò da che largo torrente
La liberalità vostra si spanda;
E dirò molto, e pur sarà nïente.

Questo è quel fiume che pur or si manda
Fuori, e quel mar che crescerà sì forte
Che ’l mondo allagherà da ogni banda.

Non se ne sono ancor le genti accorte
Per la novella età; ma tempo ancora
Verrà, ch’aprir farà le chiuse porte.

E se le stelle che ’l vil popolo ora
(Dico Ascanio, San Giorgio) onora e cole,
Oscura e fa sparir la vostr’aurora,

Che spererem che debba far il sole?
Beato chi udirà doppo mill’anni
Di questa profezia pur le parole.

Dirò di quel valor che mette i vanni,
E potria far la spada e ’l pasturale
Ancora un dì rifare i nostri danni.

Farò tacere allor certe cicale,
Certi capocchi satrapi ignoranti,
Ch’alla vostra virtù commetton male;

Genti che non san ben da quali e quanti
Spiriti generosi accompagnato
L’altrier voleste agli altri andare avanti;

Dico oltre a quei ch’avete sempre allato,
Ché tutta Italia con molta prontezza
V’arìa di là dal mondo seguitato.

Questo vi fece romper la cavezza
E della legazion tutti i legacci:
Tanto da gentil cuor gloria s’apprezza!

Portovvi in Ungheria, fuor de’ covacci;
Sì che voi sol voleste passar Vienna,
Voi sol dei Turchi vedeste i mostacci.
 
Quest’è la storia che qui sol s’accenna;
La lettera è minuta che si nota,
Di poi s’estenderà con altra penna:

E mentre il ferro a temprarla s’arruota,
Serbate questo schizzo per un pegno,
Fin ch’io lo colorisca e lo riscuota.

Che se voi sète di tela e di legno
E di biacca per man di Tizïano,
Spero ancor io, s’io ne sarò mai degno,

Di darvi qualche cosa di mia mano.


Chiome d’argento fino, irte e attorte

Chiome d’argento fino, irte e attorte
senz’arte intorno ad un bel viso d’oro;
fronte crespa, u’ mirando io mi scoloro,
dove spunta i suoi strali Amor e Morte;
  
occhi di perle vaghi, luci torte
da ogni obietto diseguale a loro;
ciglie di neve e quelle, ond’io m’accoro,
dita e man dolcemente grosse e corte;
  
labra di latte, bocca ampia celeste;
denti d’ebeno rari e pellegrini;
inaudita ineffabile armonia;
  
costumi alteri e gravi: a voi, divini
servi d’Amor, palese fo che queste
son le bellezze della donna mia.



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