Idilio dell’Era (1904-1988)



Sonetto della mamma – II

Tu che venivi, tra le spighe bionde,
e riccioli di sole avevi in testa
e dentro gli occhi lampi di foresta,
nel luminoso piano senza sponde,

cantami ancor le rime tue gioconde,
quelle che tu rapivi ad ogni resta,
colme di luce, roride di festa,
ebbre di voci e d’anime profonde.

Torna com’eri dolce donna mora,
torna com’eri giovane e selvaggia,
mi rifarò fanciullo come allora,

lasciando al mondo quello ch’egli adora,
mi perderò con te di piaggia in piaggia,
ai respiri del vento e dell’aurora.


Fuga del tempo

Nuvole gli anni, li spinge
chi sa quale remota melodia.
Ogni cuore s’avvia e si protende
verso un volto lontano.
Ma chi anela al suo bene, attende invano
che gli sia dato un poco di sostare:
siamo l’ansia del mare che confida
ai venti la sua pena e le sue grida.
Anima mia, no non invecchiare,
che se un tarlo recide
le mille e mille vite e i regni muta
in polvere e le rose impallidite
disperde al soffio della lor caduta,
scruta il segreto
che i solchi rinverdisce e fa cantare
l’acqua che sa di neve e di lichene.

Sii come la campagna fuggitiva
che ravviva di gioia la montagna
e nell’azzurro la sua voce bagna
per ritornar più giovane e giuliva.
E per donare una carezza ai vivi
le tue parole scrivi
che leggi in ogni aurora e che ritrovi
intatte a sera sotto cieli nuovi.
Chi nacque un giorno
seme d’eternità, mai più non muore,
alla soglia di Dio farà ritorno
per rifiorire d’innocenza e amore.



Punto fermo

È come una favola antica
la sera spigata di stelle:
anima mia,
cammina a regioni più belle.

Per te non voglio che il male
soave dei poeti,
il peso di un’ala immortale,
il fuoco che accende i roseti.



Preludio

Anima mia è primavera, canta:
è venuta dal mare coi panieri
tutti inguazzati di rugiada santa,
i piedi scalzi, morbidi e leggeri
aprendo i bocci con le mani chiare
di velluto. Ed un suono di alveare
esciva dai cestelli delle rose.
Le belle braccia sode e rugiadose
avean la grazia di una campagnola,
la campagnola venuta dal mare
che porta farfalle di peschi e di sole:
anima mia, è tempo di cantare.



Cielo in fiore

Ecco è fiorito il cielo
dell’innocenza della primavera
e mette in ogni solco un fuoco d’oro,
in ogni stelo un’anima leggera,
e s’è vestito a festa il pesco e il melo,
il pioppo sparge il suo fresco tesoro
come un mendico scalzo nel sentiero.

O cielo in fiore,
un volo basta a intenerirti il cuore.
Ed io ti voglio mite abitatore
dell’aiole.
E quando a sera
rabbrividisci dentro le fontane
tenero e casto come una preghiera,
fasciami gli occhi, bel cielo incantato,
sì che ogni giorno sia senza peccato.



Amo le cose lontane

Mi piace guardare negli occhi
le fontane di sera,
ove il cielo si accora,
il tempo trascolora,
e dalle azzurre lontananze scende
il silenzio che ascolta,
fascia di fragili bende
l’ombra raccolta al margine dei clivi,
le piccole strade inonda di pallore.
Di sera, amo le cose lontane
oltre il mondo dei vivi.



Il dono

Signore, fa del mio canto una gioia
che tremi di dolcezza tutte le aurore,
fa che il silenzio lo accenda
come un piccolo incendio d’amore.

Fa della mia casa un cristallo
lucente di primavere
e cento campane vi passino dentro
come un fiume di bionde preghiere.

E fammi sostare alla porta,
a la tua porta, Signore,
come l’ultimo dei tuoi,
accendi ne la mia voce un sorriso
che anche se piango
riveli il tuo dono d’amore.



Piccola Casa

La cicala ripete il triste metro
sul ciglio della sera:
in quel canto di vetro
il giorno muore.

Odorano di funghi le tue sere,
matura d’uve è l’aria,
un filo di bambagia l’addipana:
volti scomparsi e il suono
di antiche voci tornano
da una luce lontana
che subito si appanna
e si scompiglia,
ogni stagione ormai si rassomiglia,
ogni inutile attesa
mi sconforta
e la tua porta è chiusa,
piccola casa vuota.

E ti soffermi a mezzo ottobre, dici
poco meno di un terzo a noi rimane
dell’anno e già s’intenebra nei boschi
l’inverno e questa pausa di colori
adolescente d’erbe e di maggesi
ci ricorda la calma e lontananze
accese di paesi: il cane, a sera,
reca, nell’uggiolìo, venti di prato.

Quanto pallido e vano
dirada il bosco
e a lutto veste gli alberi,
non sei che il guscio
di una ghianda vuoto:
in te la notte,
dentro il vento, ascolto
e lo sgomento che mi fa lontano.

Sotto la gronda
foglie accartocciate:
crepita il ceppo, vaga,
sulle pareti,
una smarrita estate.

Odo il trotto degli alberi nel vento
e notturne pianure di nitriti:
dove lasciai l’infanzia, o bei puledri,
crescono fiumi d’erbe e la palude
incanuta di mare, va la gazza
scocheando sui pioppi inargentati:
laggiù mio padre semina solchi neri
e attende l’orzo che maturi
ed io non scorgo ormai che cimiteri.

Certi giorni di tedio e senza volto,
tanto meschina mi apparvi e povera
che avrei voluto andarmene, ma dove?
dovunque vada reco il mio diserto
e s’infunesta l’aria che respiro:
in auto, in treno, da me stesso fuggo
e se un panino mordo, in quel sapore
ritrovo il grido di sfollati, il rombo
di aerei, il ponte che balzò nel fosso,
lo schianto del paese abbandonato
e dei bambini il fragile lamento.

A te ritorno (al gelido ritorna
nido la serpe) e claustrato, l’arida
stagione sconto incerta e disadorna
né più da lungi il forno mi saluta,
capriolando il fumo in mezzo all’aia
né il bel giovenco che il muggito appaia
al verde della valle taciturna:
urna sei tu alla luna e quando bassa,
sulla montagna, il mare ti rivela,
vorrei migrare in quella lontananza.

Avrei dovuto chiederti quel poco
che all’eremita basta e lo fa lieto,
un pagliericcio, un focherello, il fioco
lume d’inverno e l’ombra di una rama
quando l’estate pascola sul greto:
non ebbi doni da mia madre: a cena
di una lacrima d’olio era condito
il mio pancotto e si e no due noci
chiudevano il magrissimo convito:
mia madre, come visse, se n’è andata
col suo grembiule vuoto e rassettato:
ma se una chioccia croccola e il pollaio
di argute creste ti fiorisce intorno,
a lei pensando, mi divieni vasta
come un tranquillo cielo a mezzogiorno,
piccola casa confidente e casta.

Hanno le notti lugubri promesse
in cui ti attardi ora che gli anni brevi
si accorciano, a insaputa di te stesso:
dove correvi? Non lo sai, dispersi
i desideri fuggono con noi
e quel che amasti ravvilito è tutto,
tardivo frutto che avvizzì sul ramo:
questa fretta di vivere, di vittime,
di sangue seminato sugli asfalti,
di ingorghi di città, di fuochi esplosi
nella remota sommità dell’aria,
ci assilla da ogni parte e ci saetta:
meglio la notte e attendere messaggi
lugubri e dolci dentro i tuoi riposi.

Voci che mi chiamate vespertine,
da tante vie, so di venire, vengo:
seppelliti i ricordi ad un cipresso,
forestiero a me stesso, allungo il passo.
Farete scorta all’ultimo traguardo,
voi senza suono, voci della sera
perché il silenzio sia pace e perdono
a chi nel mondo più non crede e spera.

Non so, fra questi muri, quali
prima di me, abitassero creature:
tornano, in fantasia, sui focolari,
facce chiazzate dalla fiamma, mani
corrucciate dai fieni e dai letami:
il fuso addormentato tra i ginocchi,
ascolta il vento premere dai boschi
la vecchierella e l’uggiolìo dei cani.

Formiche brune dal buio cancellate,
gente che non conobbi: altre verranno
e non saprò di loro e vagirà un bambino,
con un ciuffo di lana, nel mio letto,
rifiorirà, nell’orto, il melograno
il mandorlo sul tetto e sarà scarsa l’acqua
e d’aerei paesi, nel suo volo,
ridirà l’ape e tornerà l’estate
con le faville e il rosso dei maggesi.

Nascevi nel canto del gallo
ma tu di noi non serberai memoria,
piccola casa a cui già dico addio.



Polifonia sacra

Dio che cercai con l’intelletto, un suono
mi rispose, il tuo nome: nel tuo lume,
per ogni dove, vidi l’universo
e mi fuggì l’immagine del fiore…
Dio degli schemi, come noi, schedato
nei manuali, troppo vasto sei,
tanto vicino a noi se per un fiato
che esce, morente il corpo, t’incontriamo…
Dio del mistero, dei perché insidiosi
tanto da te mi basta essere amato
che lo scontroso me si fa sereno.

Noi diciamo di Te quel che non sei
e discorriamo dietro una parete
d’ombra, sovrapponendo le montagne
a prolungare il nome tuo sì breve.
Oh, i pensieri degli uomini non sono
che mandrie di chimere allucinate!
Carovaniera Notte le conduce;
Tu il pelago raggiante e senza sponde
che germoglia la vita e la riprende
ed io, sull’onda tutta luminosa,
il pallido gabbiano che riposa.
Senza di me fu il tempo, l’infinito
fiorir di primavere e di stagioni:
con me l’eternità bionda di sole.
E non sono, Signore, il prima e poi
altro che vani segni a limitare
un’impotenza fatta di parole.

La tua parola è il Verbo che dischiude
un’armonia taciuta e sconosciuta:
Tu respiri per entro la sua Carne
immacolata, come un fiato enorme
che i disegni degli uomini scompone.
Tu che i silenzi popoli di note,
o musicale Dio, fammi conforme
alle tue stelle immemori e remote.

Tu sei, Notturno Dio, il claustrale
che la dimora elesse tra gli abeti.
Quando il silenzio domina sovrano,
cammini a lenti passi solitari
sulle tombe dei santi e degli asceti,
lieve come il crepuscolo che indora
l’erba dei presbiteri addormentati.
Ancora sulla terra gli eremiti
vanno reclusi in una fede oscura:
li penetri così come fa l’acqua
dentro la creta in cui germina il grano.
Tacciono i sensi e le lusinghe buie
e nasce dal morire l’ora bella:
la dolce tenebrìa, l’azzurro fiore
a partorire s’apre il Paradiso.

Non gli incompiuti, Ti crediamo, Dio,
nelle creature e d’ogni cosa al fondo
pesa l’affanno e la desolazione.
Alberi senza vela in mezzo al mare,
i nostri giorni si agitano al vento:
battono l’onde su lo scoglio nero
e ci illudiamo di trovar riposo
in altri lidi, sotto nuove stelle,
ma sta l’abisso dentro l’occhio vuoto.

Sono il cencioso, il logoro di fame:
eppur questo ludibrio mi consola:
vedo negli occhi altrui la stessa pena,
mi siedo con i poveri la sera
sullo scalino della casa nuda.
Ha gesti desolati la miseria,
la mano adunca si agita e si spiana,
quasi cercano la tua veste d’aria.
Ma la coltre del sonno è meno dura
della giornata livida e patita:
è cadere così nelle tue braccia,
senza invocarTi, con la bocca chiusa.

Sarò come la pietra in cui rifulge
il volto che l’artefice vi infuse.
Tu che soggiorni, Dio, sulle montagne
e scolpisci le immagini per lampi
perché l’eternità rinasca in noi,
questa inerzia condanni che rinchiusa
dentro la fitta sordità dei sensi
da Te ci estranea e ci fa quasi muti.

Mi empivi di paura e di stupore
quando riverso in cumoli di fieno
dell’infinito mi parlavi, Padre.
E la cetonia colorava il giorno
del suo lamento e il passero furtivo
migrava con la spiga dentro il becco.
La rondine recava a me, sul petto,
il segno bianco della tua bontà.
Un cerchio d’alba, a notte, in mezzo al prato
era il paese dell’eternità.

Nelle vetrate delle cattedrali
i tuoi santi Ti pregano, Signore:
hanno le infule d’oro, i pastorali
ricurvi, abbacinati da una luce
che invermiglia le pietre sepolcrali:
le vergini sorreggono le chiome
come morenti spighe nelle mani.

Io non voglio, Signore,
che il tuo respiro tenero di Padre
e so che il mare muove
Verso di Te con l’ansia del suo cuore,
che il firmamento carico di opale
è un colloquio dipinto di stupori.
Gli uccellini migratori, il sole, il vento
sono la tua canzone
e solo s’interpone,
tra la vita e la morte, il bene e il male.
Tu che mi dici a sera
« È notte, va’ figliolo, vai »
tra foglia e ramo lieviti il richiamo
di una certezza fatta a me più pura:
dei mali che pavento niuno allora
mi trafigge di strazio o di paura.

Quanto hai creato, Dio,
nell’universo è bello:
il mare, il firmamento
e l’ape ed il giumento,
la lacrima e il sorriso,
l’abisso e il Paradiso,
la luce del beato
e la fosca tristezza del dannato.

Che saranno, Signore, queste mani
su cui piovvero lacrime di fiele?
Tu me le desti a trapiantare rose
nel tuo giardino:
l’infanzia colma di baleni d’oro
seppero e la carezza ventilata
dei pruni, il disinganno,
il patire, il partire
delle persone amate
e claustrali giacquero nel buio.
Verranno a Te come ali ripiegate
vinte e deluse?
Abbi pietà, Signore,
di queste mani chiuse.

Geloso Dio, mi hai dato che Ti senta
come l’abisso della perfezione:
ma l’ansito del vento stanca il fiato
e la polvere sale dalle strade.
E se la notte su di me riversa
la tua chiarezza e torna il mio passato,
opaco mi ritrovo e senza volto.
Mi scioglierai da questa prigionìa
che nella creta l’anima confina?
Io numero i miei giorni e gli anni avverto
che poseranno in grembo al tuo sorriso:
l’aurora spunterà dal mio deserto.

Deluso Adamo, ti ritrovo, a giorno,
col filo d’erba su le labbra:
dell’albero incantato al trono siedi:
odi lo schianto d’uragani, vedi
d’ossa fiorir le zolle sotto i piedi.
Ti pende il tempo sul canuto mento:
in colonne di fumo, a cento a cento,
il groviglio dei regni e degli imperi
arde, si torce, si arrovella al vento.
Una sorte ci eguaglia e ci percuote:
io non piango con te le te sciagure,
nato di terra, ma la derisione
Dei giorni dentro le mie palme vuote

A costruirsi l’Eden distrutto
innalzarono gli uomini le case,
ma le finestre parvero, di sera,
tanti occhi di morti.
Fecero strade e giardini
e un mendicante fu visto
e una fanciulla a piangere tra i fiori.
Adombrarono il mare di velieri
e un vento amaro li lasciò deserti.
Si spinsero nel ciel, ardimentosi,
cosparsero la terra di vittorie
e sulle braccia recavano
ghirlande funerarie.
Or disgregato l’atomo, li tiene
la paura sospesi ad una rupe
come branchi impazziti di fanciulli.

Foglie rosse! Sono embrici, Signore,
per la casa dei morti.
Noi ravviviamo in esse le illusioni
che qui tenemmo dentro gli occhi assorti.
Come un drappo è quest’erba di velluto
che chiama i vivi e i cari estinti aduna
e li veste di un sonno sconosciuto.
Ma la notte ci avverte che il giardino
del gran silenzio, oltre la terra bruna,
albeggia ed è fiorito.

Son frammenti di sillabe le pietre:
anche le pietre gridano il tuo nome.
Vi costruimmo le città selciate
battute dall’angoscia e dal dolore:
si sfaldano chimeriche demenze
e in falloppi di cenere le ebbrezze
e le notti son luci avvelenate
e un frettoloso, vorticoso andare
risveglia l’eco delle sepolture.
Ma niuna casa ci darai più chiara
di questo cielo che hai riposto in noi,
ineffabile quiete delle alture.
Quanto lasciammo di caduco tace
ci empi di azzurra tenebra le mani:
moviamo, in sogni opachi,
verso beltà silenti e irrelevate.
Così giungono i morti alla tua riva
e un velame dolcissimo li tiene
da noi lontani.

Sarà buio il mio corpo
ed io starò dinanzi al tuo costato,
Cristo Signore: Ti dirò contrito:
Fui l’angelo predato
e reco dall’esilio
un trassalir di rose e d’erbe amare.
Non trovai che un frammento illuminato
negli uomini creduli.
Udivo in grembo agli steli
il fioco pianto di Abele.
Ma Tu passavi forestiero,
sedevi all’ombra dei poveri
sulle porte logore di vento.
Eri il demente pallido,
il carcerato, il ferito,
eri l’ombra trafitta sul guanciale.
Nel bianco sepolcrale io vidi
fiorire le tue mani.
Doleva ai vecchi la memoria
di età defunte,
chiari d’aurora i pargoli
avevano i tuoi occhi:
gelose di silenzi,
allo spigar delle stelle,
le tue chiese.
Eri brezza soave, eri l’Amore.

Accompagna il mio credere
una stupita luce
che increspa l’orizzonte:
passano i Santi,
tra l’ombre di quaggiù
e, mendicanti di eternità, i poeti.
Le ore che si allietano
di Te godute, le sere inerti
nell’anima smarrite,
si fanno ora speranza di un’attesa.
Coglie il pensiero,
come l’anguilla il suo boccone d’aria,
la nullità che lo delude
e sa che dove il nostro tempo vive
esulta un grido d’innocenze;
a pena un drappo bianco ci divide.




Se la morte fosse una bambina

Se la morte fosse una bambina
l’accoglieremmo a festa nelle case,
discorrerebbe con gli uccellini e coi fiori
nei nostri giardini e una sera,
a piedi scalzi, verrebbe al capezzale
a chiuderci gli occhi nelle fragili manie:
ma ce ne andremo coi fantasmi tristi
di una morte barocca che cammina al buio,
di uno scheletro donchisciottesco
che agita una falce ridicola,
morte medioevale
che veste a lutto le chiese
e la musica delle fanfare:
quando sarò cadavere
dite una Messa bianca all’altare
della dolcissima Vergine Maria:
oh poesia di Lazzaro, alleluia di Resurrezione!
Se la morte fosse una bambina
accenderebbe una candelina
così piccina, nelle nostre case,
come una lucciola d’estate.


Non avrai memoria

Ci coglie, all’improvviso,
la tua mano bianca:
si dissolvono allora le parvenze
del nostro corto vivere quaggiù,
ma Tu dei giorni futili,
dell’ore morte
non avrai memoria:
in noi tremano gli occhi
d’infiniti mondi:
sapremo quel che ci nascondi
oltre la melodia degli universi.


Che io possa camminare

Autunno, fragile sui rami
accendi la mia sera e mi fai chiaro
come il ciottolo avaro in fondo al greto:
dirado: i giorni, l’ore,
i desideri, un grumo di memorie:
sento la quiete antica dell’ulivo
crescermi accanto.

E non sarò che uno smarrito nome
e se odiosi mi appariranno i giorni
e se me stesso
in un rugoso viso scorgerò,
i bei mattini e il volo delle allodole
rammentami, Signore,
l’estate dei colori,
la sera addormentata
sulle colline e il mare,
le mani che non seppi ringraziare,
il sorriso di un fiore:
ch’io possa camminare,
anche se inferno, sino a Te, Signore.


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