Lorenzo de’ Medici (1449-1492) 

Era nel tempo bel, quando Titano

(S’invaghí della sua donna in primavera.)

Era nel tempo bel, quando Titano
dell’annual fatica il terzo avea
giá fatto, e co’ suoi raggi un po’ pugnea
d’un tal calor, ch’ancor non è villano;

vedeasi verde ciascun monte e piano,
e ogni prato pe’ fiori rilucea,
ogni arbuscel sue fronde ancor tenea,
e piange Filomena e duolsi invano;

quand’io, che pria temuto non avria,
se Ercole tornato fussi in vita,
fu’ preso d’un leggiadro e bello sguardo.

Facile e dolce all’entrar fu la via;
or non ha questo laberinto uscita,
e sono in loco dove sempre io ardo.



Donna, vano è il pensier che mai non crede

Donna, vano è il pensier che mai non crede
che venga il tempo della sua vecchiezza,
e che la giovinezza
abbi sempre a star ferma in una tempre.

Vola l’etate e fugge;
presto di nostra vita manca il fiore:
e però dé’ pensar il gentil core
ch’ogni cosa ne porta il tempo e strugge.

Dunque dé’ gentil donna aver merzede
e non di sua bellezza essere altèra:
perché folle è chi spera
viver in giovinezza e bella sempre.




Non de’ verdi giardini ornati e colti

Non de’ verdi giardini ornati e colti
dello aprico e dolce aere pestano,
veniam, madonna, in la tua bianca mano,
mia in aspre selve e valli ombrose còlti,

ove Venere, afflitta e in pensier molti
pel periglio d’Adon, correndo invano,
un spino acuto al nudo piè villano
sparse del divin sangue i boschi folti.

Noi summettemmo allora il bianco fiore,
tanto che ‘l sacro sangue non aggiunge
a terra: onde il color purpureo nacque.

Non aure estive o rivi tolti a lunge
noi nutriti hanno, ma sospir d’amore
l’aure son sute, e lacrime fûr acque


Trionfo di Bacco e Arianna

Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Quest’è Bacco e Arïanna,
belli, e l’un dell’altro ardenti:
perché ’l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe ed altre genti
sono allegre tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Questi lieti satiretti,
delle ninfe innamorati,
per caverne e per boschetti
han lor posto cento agguati;
or da Bacco riscaldati
ballon, salton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia
di doman non c’è certezza.

Queste ninfe anche hanno caro
da lor essere ingannate:
non può fare a Amor riparo
se non gente rozze e ingrate:
ora, insieme mescolate,
suonon, canton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Questa soma, che vien drieto
sopra l’asino, è Sileno:
così vecchio, è ebbro e lieto,
già di carne e d’anni pieno;
se non può star ritto, almeno
ride e gode tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Mida vien drieto a costoro:
ciò che tocca oro diventa.
E che giova aver tesoro,
s’altri poi non si contenta?
Che dolcezza vuoi che senta
chi ha sete tuttavia?
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Ciascun apra ben gli orecchi,
di doman nessun si paschi;
oggi siam, giovani e vecchi,
lieti ognun, femmine e maschi;
ogni tristo pensier caschi:
facciam festa tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Donne e giovinetti amanti,
viva Bacco e viva Amore!
Ciascun suoni, balli e canti!
Arda di dolcezza il core!
Non fatica, non dolore!
Ciò c’ha a esser, convien sia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.




Chi tempo aspetta, assai tempo si strugge 

Chi tempo aspetta, assai tempo si strugge:
e ’l tempo non aspetta, ma via fugge.

La bella gioventú giamai non torna,
né ’l tempo perso giamai riede indrieto;
però chi ha ’l bel tempo e pur soggiorna,
non ará mai al mondo tempo lieto;
ma l’animo gentile e ben discreto
dispensa il tempo, mentre che via fugge.

Oh quante cose in gioventú si prezza!
Quanto son belli i fiori in primavera!
Ma, quando vien la disutil vecchiezza
e che altro che mal piú non si spera,
conosce il perso di quando è giá sera
quel che ’l tempo aspettando pur si strugge.

Io credo che non sia maggior dolore
che del tempo perduto a sua cagione:
questo è quel mal che affligge e passa il core,
questo è quel mal che si piange a ragione;
questo a ciascun debbe essere uno sprone
di usare il tempo ben, che vola e fugge.

Però, donne gentil, giovani adorni,
che vi state a cantare in questo loco,
spendete lietamente i vostri giorni,
ché giovinezza passa a poco a poco:
io ve ne priego per quel dolce foco
che ciascun cor gentile incende e strugge.



Nencia da Barberino

1
Ardo d’amore e conviemme cantare
per una dama che me strugge el cuore,
ch’ogni otta ch’i’ la sento ricordare
el cuor me brilla e par che gl’esca fuore.
Ella non truova de bellezze pare,
cogli occhi gitta fiaccole d’amore;
i’ sono stato in città e ‘n castella
e mai ne vidi ignuna tanto bella.

2
I’ sono stato a Empoli al mercato,
a Prato, a Monticelli, a San Casciano,
a Colle, a Poggibonzi, e San Donato,
a Grieve e quinamonte a Decomano;
Fegghine e Castelfranco ho ricercato,
San Piero, e ‘l Borgo e Mangone e Gagliano:
più bel mercato ch’entro ‘l mondo sia
è Barberin dov’è la Nencia mia.

3
Non vidi mai fanciulla tanto onesta,
né tanto saviamente rilevata;
non vidi mai la più leggiadra testa,
né sì lucente, né sì ben quadrata;
con quelle ciglia che pare una festa,
quand’ella l’alza ched ella me guata;
entro quel mezzo è ‘l naso tanto bello,
che par proprio bucato col succhiello.

4
Le labbra rosse paion de corallo,
e havvi drento duo filar’ de denti
che son più bianchi che que’ del cavallo:
da ogni lato ve n’ha più de venti.
Le gote bianche paion de cristallo,
senz’altro liscio, né scorticamenti,
rosse entro ‘l mezzo, quant’è una rosa,
che non se vide mai sì bella cosa.

5
Ell’ha quegli occhi tanto rubacuori,
che la trafiggere’ con egli un muro;
chiunch’ella guata convien che ‘nnamori,
ma ella ha ‘l cuore com’un ciottol duro,
e sempre ha drieto un migliaio d’amadori,
che da quegli occhi tutti presi furo;
la se rivolge e guata questo e quello:
i’, per guatalla, me struggo el cervello.

6
La m’ha sì concio e ‘n modo governato,
ch’i’ più non posso maneggiar marrone;
e hamme drento sì ravviluppato,
ch’i’ non ho forza de ‘nghiottir boccone;
i’ son com’un graticcio deventato,
e solamente per le passïone
ch’i’ ho per lei nel cuore (eppur sopportole!),
la m’ha legato con cento ritortole.

7
Ella potrebbe andare al paragone
tra un migghiaio de belle cittadine,
che l’apparisce ben tra le persone
co’ suo begghi atti e dolce paroline;
l’ha ghi occhi suoi più neri ch’un carbone
di sotto a quelle trecce biondelline,
e ricciute le vette de’ capegli
che vi pare attaccati mill’anegli.

8
Ell’è dirittamente ballerina,
che la se lancia com’una capretta,
girasi come ruota de mulina,
e dassi della man nella scarpetta;
quand’ella compie el ballo, ella se ‘nchina,
po’ se rivolge e duo colpi iscambietta,
e fa le più leggiadre riverenze
che gnuna cittadina da Firenze.


9
La Nencia mia non ha gnun mancamento,
l’è bianca e rossa e de bella misura,
e ha un buco ento ‘l mezzo del mento
che rabbellisce tutta sua figura;
ell’è ripiena d’ogni sentimento,
credo che ‘n pruova la fesse natura,
tanto leggiadra e tanto appariscente,
che la diveglie el cuore a molta gente.

10
Ben se ne potrà chiamare avventurato,
chi fie marito de sì bella moglie;
ben se potrà tenere in buon dì nato,
chi arà quel fioraliso sanza foglie;
ben se potrà tener santo e bïato,
e fien guarite tutte le sue doglie,
aver quel viso e vederselo in braccio,
morbido e bianco, che pare un sugnaccio.

11
Se tu sapessi, Nencia, el grande amore
ch’i’ porto a’ tuo begli occhi tralucenti,
e la pena ch’i’ sento, e ‘l gran dolore
che par che mi si svèglin tutt’i denti,
se tu ‘l pensasse, te creperre’ el cuore,
e lasceresti gli altri tuo serventi,
e ameresti solo el tuo Vallera,
che se’ colei che ‘l mie cuor disidèra.

12
Nenciozza, tu me fai pur consumare,
e par che tu ne pigli gran piacere;
se sanza duol me potessi cavare,
me sparere’ per darti a divedere
ch’i’ t’ho ‘nto ‘l cuore, e fare’tel toccare;
tel porre’ in mano e fare’tel vedere;
se tu ‘l tagghiassi con una coltella
e’ griderrebbe: – Nencia, Nencia mia bella! –

13
Quando te veggo tra una brigata,
convien che sempre intorno mi t’aggiri;
e quand’i’ veggo ch’un altro te guata,
par proprio che del petto el cuor me tiri;
tu me se’ sì ‘nto ‘l cuore intraversata,
ch’i’ rovescio ognindì mille sospiri,
pien’ de singhiozzi, tutti lucciolando,
e tutti quanti ritti a te gli mando.

14
Non ho potuto stanotte dormire,
mill’anni me parea che fusse giorno,
per poter via con le bestie venire,
con elle insieme col tuo viso addorno;
e pur del letto me convenne uscire,
puosimi sotto ‘l portico del forno,
e livi stetti più d’un’ora e mezzo,
finché la luna se ripuose, al rezzo.

15
Quand’i’ te vidi uscir della capanna,
col cane innanzi e colle pecorelle,
e’ me ricrebbe el cuor più d’una spanna,
e le lagrime vennon pelle pelle;
eppoi me caccia’ giù con una canna,
dirieto a’ mie giovenchi e le vitelle,
e avvïa’gli innanzi vie quinentro
per aspettarti, e tu tornasti dentro.

16
I’ me posi a diacer lungo la gora,
abbioscio su quell’erba voltoloni,
e livi stetti più d’una mezz’ora,
tanto che valicorno e tuo castroni.
Che fa’ tu entro, ché non esci fuora?
Vientene su per questi valiconi,
ch’i’ cacci le mie bestie nelle tua,
e parrem uno, e pur saremo dua.

17
Nenciozza mia, i’ vo’ sabato andare
sin a Firenze, a vender duo somelle
de schegge, ch’i’ me puosi ier a tagghiare
mentre ch’i’ ero a pascer le vitelle;
procura ben quel ch’i’ posso recare,
se tu vuo’ ch’i’ te comperi cavelle:
o liscio o biacca into ‘n un cartoccino,
o de squilletti o d’àgora un quattrino.

18
Se tu volessi per portare a collo
un collarin di que’ bottoncin’ rossi,
con un dondol nel mezzo, recherollo:
ma dimmi se gli vuoi piccini o grossi;
s’i’ me dovessi tragli del midollo
del fusol della gamba o degli altr’ossi,
o s’i’ dovessi vender la gonnella,
i’ te l’arrecherò, Nencia mie bella.

19
Ché non me chiedi qualche zaccherella?
So che n’aopri de cento ragioni:
o uno ‘ntaglio per la tuo gonnella,
o uncinegli, o magghiette, o bottoni,
o vuoi pel camiciotto una scarsella,
o cintol’, per legarti gli scuffoni,
o vuoi, per amagghiar la gammurrina,
de seta una cordella cilestrina.

20
Gigghiozzo mio, tu te farai con Dio,
perché le bestie mie son presso a casa;
i’ non vorrei che pel baloccar mio
ne fusse ignuna in pastura rimasa;
veggo che l’hanno valicato el rio,
e odomi chiamar da mona Masa;
rimanti lieta, i’ me ne vo cantando,
e sempre Nencia ento ‘l mie cuor chiamando.


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