Ludovico Ariosto (1474-1533) 

Avventuroso carcere soave

Aventuroso carcere soave,
dove né per furor né per dispetto,
ma per amor e per pietà distretto
la bella e dolce mia nemica m’ave;

gli altri prigioni al volger de la chiave
s’attristano, io m’allegro: ché diletto
e non martir, vita et non morte aspetto;
né giudice sever né legge grave,

ma benigne accoglienze, ma complessi
licenziosi, ma parole sciolte
da ogni fren, ma risi, vezzi e giochi;

ma dolci baci, dolcemente impressi
ben mille e mille e mille e mille volte;
e, se potran contarsi, anche fien pochi.



O sicuro, secreto e fidel porto


O sicuro, secreto e fido porto,
dove, fuor di gran pelago, due stelle,
le più chiare del cielo e le più belle,
dopo una lunga e cieca via m’han scôrto:

or io perdono al vento e al mare il torto
che m’hanno con gravissime procelle
fatto sin qui, poi che se non per quelle,
io non potea fruir tanto conforto.

O caro albergo, o cameretta cara,
ch’in queste dolci tenebre mi servi
a goder d’ogni sol notte più chiara!

Scorda ora i torti e sdegni acri e protervi;
che tal mercé, cor mio, ti si prepara,
che appagherà quant’hai servito e servi.


Canzone I

Non so s’io potrò ben chiudere in rima
Quel che in parole sciolte
Fatica avrei di raccontarvi a pieno:
Come perdei mia libertà,  che prima,
Madonna, tante volte
Difesi, acciò non n’avesse altri il freno.
Tenterò nondimeno
Farne il poter, poi che così v’aggrada;
Con desir che ne vada
La fama, e a molti secoli dimostri
Le chiare palme e i gran trionfi vostri.

Le sue vittorie ha fatto illustri alcuno,
E con gli eterni scritti
Ha tratto fuor del tenebroso oblio:
Ma li perduti eserciti nessuno,
E gli avversi conflitti,
Ebbe ancor mai di celebrar disio.
Sol celebrar vogl’io
Il dì ch’andai prigion ferito a morte;
Chè, contra man sì forte,
Ben ch’io perdei, pur l’aver preso assalto,
Più che mill’altri vincitor mi esalto.

Dico che ’l giorno che di voi m’accesi
Non fu il primo che ’l viso
Pien di dolcezza ed i real costumi
Vostri mirassi, affabili e cortesi;
Nè che mi fosse avviso
Che meglio unqua mirar non potean lumi:
Ma selve e monti e fiumi
Sempre dipinsi innanzi al mio disire,
Per levargli l’ardire
D’entrar in via dove per guida pórse
Io vedea la speranza, e star in forse.

Quinci lo tenni e mesi ed anni escluso;
E dove più sicura
Strada pensai, lo vôlsi ad altro corso:
Credendo poi che più potesse l’uso
Che ’l destin, di lui cura
Non ebbi; ed ei, tosto che senza morso
Sentissi, ebbe ricorso
Dov’era il natural suo primo istinto;
Ed io nel laberinto
Prima lo vidi, ove ha da far sua vita,
Che a pensar tempo avessi a dargli aita.

Nè il dì nè l’anno tacerò nè il loco
Dove io fui preso, e insieme
Dirò gli altri trofei ch’allora aveste,
Tal che appo loro il vincer me fu poco.
Dico, dà che il suo seme
Mandò nel chiuso ventre il Re celeste,
Avean le rôte preste
Dell’omicida lucido d’Achille
Rifatto il giorno mille
E cinquecento tredici fiate,
Sacro al Battista in mezzo della state.

Nella tosca città, che questo giorno
Più riverente onora,
La fama avea a spettacoli solenni
Fatto raccôr, non che i vicini intorno,
Ma li lontani ancora.
Ancor io vago di mirar, vi venni.
D’altro ch’io vidi, tenni
Poco ricordo, e poco me ne cale:
Sol mi restò immortale
Memoria, ch’io non vidi in tutta quella
Bella città, di voi cosa più bella.

Voi quivi, dove la paterna chiara
Origine traete,
Da preghi vinta e liberali inviti
Di vostra gente, con onesta e cara
Compagnia, a far più liete
Le feste e a far più splendidi i conviti,
Con li doni infiniti
In che ad ogni altra il ciel v’ha posta innanzi,
Venuta erâte dianzi,
Lasciato avendo lamentar indarno
Il re de’ fiumi, ed invidiarvi ad Arno.

Porte, finestre, vie, templi, teatri
Vidi pieni di donne
A giochi, a pompe e a sacrificî intente,
E mature ed acerbe e figlie e matri,
Ornate in varie gonne,
Altre stare a conviti, altre agilmente
Danzare; e, finalmente,
Non vidi, nè sentíi ch’altri vedesse,
Chi di beltà potesse,
D’onestà, cortesía, d’alti sembianti
Voi pareggiar, non che passarvi innanti.
 
Trovò gran pregio ancor, dopo il bel volto,
L’artificio discreto
Ch’in aurei nodi il biondo e spesso crine
In rara e sottil rete avea raccolto.
Soave ombra di drieto
Rendea al collo, e dinanzi al bel confine
Delle guance divine,
E discendea fin all’avorio bianco
Del destro omero e manco.
Con queste reti insidïosi Amori
Preser quel giorno più di mille côri.

Non fu senza sue lodi il puro e schietto
Serico abito nero,
Che, come il sol luce minor confonde,
Fece ivi ogn’altro rimaner negletto.
Deh! se lece il pensiero
Vostro spiar, de l’implicate fronde
Delle due viti, d’onde
Il leggiadro vestir tutto era ombroso,
Ditemi il senso ascoso.
Sì ben con ago dotta man le finse,
Che le porpore e l’oro il nero vinse.

Senza misterio non fu già trapunto
Il drappo nero, come
Non senza ancor fu quel gemmato alloro
Tra la serena fronte e il calle assunto
Che delle ricche chiome
In parte ugual va dividendo l’oro.
Senza fine io lavoro,
Se quanto avrei da dir vô porre in carte;
E la centesma parte
Mi par ch’io ne potrò dire a fatica,
Quando tutta mia età d’altro non dica.

Tanto valor, tanta beltà non m’era
Peregrina nè nôva;
Sì che dal folgorar d’accesi rai,
Che facean gli occhi e la virtude altera,
Già stato essendo in prova,
Ben mi credea d’esser sicuro omai.
Quando men mi guardai,
Quei pargoletti che nell’auree crespe
Chiome attendean, qual vespe
A chi le attizza, al côr mi s’avventaro,
E nei capelli vostri lo legaro.

Vel legaro in sì stretti e duri nodi,
Che più saldi un tenace
Canape mai non strinse, nè catene;
E chi possa venir che me ne snodi,
D’immaginar capace
Non son, s’a snodar morte non lo viene.
Deh! dite: come avviene
Che d’ogni libertà m’avete privo,
E menato captivo;
Nè più mi dolgo ch’altri si dorria
Sciolto da lunga servitute e ria?

Mi dolgo ben, che de’ soavi ceppi
L’ineffabil dolcezza,
E quanto è meglio esser di voi prigione
Che d’altri re, non più per tempo seppi.
La libertade apprezza
Fin che perduta ancor non l’ha il falcone:
Preso che sia, depone
Del gire errando sì l’antica voglia,
Che sempre che si scioglia,
Al suo signore a render con veloci
Ali s’andrà, dove udirà le voci.

La mia donna, Canzon, solo ti legga,
Sì ch’altri non ti vegga,
E pianamente a lei di’ chi ti manda:
E s’ella ti comanda
Che ti lasci veder, non star occulta,
Se ben molto non sei bella nè culta.




Elegia II 


Della mia negra penna in fregio d’oro
Molti mi sono a dimandar molesti
L’occulto senso, ed io no ’l vô dir loro.

Vô che sempre nel cor chiuso mi resti;
Nè, per pregar o stimolar d’altrui,
Giammai mi potrò indur ch’io ’l manifesti.

Dio, come in gli altri magisteri sui,
Providenza ebbe assai, quando il côr pose
Nella più ascosa parte ch’era in nui;

Ch’ivi i pensieri e le segrete cose
Volse riporre, e chiudervi la via
A queste avide menti e curïose.

Fregiata d’ôr la negra penna mia
Ho in cento luoghi nel vestir trapunta,
Acciò palese a tutti gli occhi sia:

Ma vô tacer a qual effetto assunta
L’ho di portar, e non vô dir se mostra
L’anima lieta o di dolor compunta.

Se vo’ direte ostinazion la nostra,
Io dirò che immodesti ed importuni
Voi sete, e gran discortesía è la vostra.

Non so s’avete udito dir d’alcuni,
Che d’aver desiato di sapere
Gli altrui segreti esser vorrían digiuni.

L’uccel c’ha bigio il petto e l’ale nere,
Fu prima donna, e diventò cornice
Per esser troppo vaga di sapere.

Ciò ch’altri asconder vuol, spiar non lice,
E vi dovrebbe raffrenar quello anco
Che di Tiresia e d’Atteon si dice:

De’ quali un fe restar di luce manco
Pallade ultrice, e l’altro fe Diana
Sfamar i cani suoi del proprio fianco.

Se d’esser sopraggiunte alla fontana
Nudo il bel corpo, così increbbe ad esse,
Che vendetta ne fêro acerba e strana;

Non fôra oltre ragion che mi dolesse
Che voi molto più addentro che alle gonne
Veder cercate come il cor mi stesse.

Non son già del valor di quelle donne,
Nè sì crudel ch’a voi facessi il danno
Ch’elle fêro a Tiresia e ad Atteonne:

Dicovi ben, che ’l dritto lor non fanno
Quei che lo studio e tutto il pensier loro
Sol per volere interpretar posto hanno

Questa mia negra penna in fregio d’oro.



Elegia III 


Meritamente ora punir mi veggio
Del grave error che a dipartirmi feci
Della mia donna, e degno son di peggio.

Ben poco saggio fui, ch’all’altrui preci,
Cui doveva e potei chiuder gli orecchi,
Più ch’al mio desir proprio soddisfeci.

S’esser può mai che contra lei più pecchi,
Tal pena sopra me subito cada,
Che nel mio esempio ogni amator si specchi.

Deh! chi spero io che per sì iniqua strada,
Sì rabbiosa procella d’acqua e venti,
Possa esser degno che a trovar si vada?

Arroge il pensar poi da chi m’assenti,
Che travaglio non è, non è periglio,
Che più mi stanchi o che più mi spaventi.

Péntomi, e col pentir mi meraviglio
Com’io potessi uscir sì di me stesso,
Ch’io m’appigliassi a questo mal consiglio.

Tornar addietro omai non m’è concesso,
Nè mirar se mi giova o se m’offende:
Lecito fôra più quel c’ho promesso.

Mentre ch’io parlo, il torbid’austro prende
Maggior possanza, e cresce il verno, e sciolto
Da’ rovinosi balzi il licor scende:

Di sotto il fango, e quinci e quindi il folto
Bosco mi tarda; e in tanto l’aspra pioggia,
Acuta più che stral, mi fêre il volto.

So che qui appresso non è casa loggia
Che mi ricopra, e pria che a tetto giunga,
Per lungo tratto il monte or scende or poggia.

Nè più affrettar, perch’io lo sferzi o punga,
Posso il caval, chè lo sgomenta l’ira
Del cielo, e stanca la via alpestre e lunga.

Tutta quest’acqua e ciò che intorno spira,
Venga in me sol, che non può premer tanto
Ch’agguagli il duol che dentro mi martira

Chè se a Madonna io m’appressassi quanto
Me ne dilungo, e fosse speme al fine
Del mio cammin poi respirarle a canto;

E le man bianche più che fresche brine
Baciarle, e insieme questi avidi lumi
Pascer delle bellezze alme e divine;

Poco il mal tempo, e monti e sassi e fiumi,
Mi darían noia, e mi parrebbon piani,
E più che prati molli, erte e cacumi.

Ma quando avvien che sì me ne allontani,
Le amene Tempe e del re Alcinoo gli orti
Che pôn, se non parermi orridi e strani?

Gli altri in le lor fatiche hanno conforti
Di riposarsi dopo, e questa speme
Li fa a patir le avversità più forti.

Non più tranquille già nè più serene
Ore attender poss’io; ma al fin di queste
Pene e travagli, altri travagli e pene.

Altre pioggie al coperto, altre tempeste
Di sospiri e di lagrime mi aspetto,
Che mi sien più continue e più moleste.

Duro sarammi più che sasso il letto,
E il cor tornar per tutta questa via
Mille volte ogni dì sarà costretto:

Languendo il resto della vita mia,
Si struggerà di stimolosi affanni,
Percosso ognor da penitenza ria.

I mesi, l’ore e i giorni a parer anni
Cominceranno, e diverrà sì tardo,
Che parrà il tempo aver tarpato i vanni;

Che già, godendo del soave sguardo,
Dell’invitta beltà, dell’immortale
Valor, del bel sembiante, onde tutt’ardo,

Vedea fuggir più che da corda strale.




Elegia IV 


Era candido il corvo, e fatto nero
Meritamente fu, perchè troppo ebbe
Espedita la lingua a dir il vero.

Aver taciuto Ascalafo vorrebbe
Il testimon che sullo stigio fiume
Alla madre e alla figlia udire increbbe;

Chè di funeste e d’infelici piume
Si ricoverse, e restò augello osceno,
Dannato sempre ad abborrir il lume.

Pôr si devrian tutte le lingue a freno,
E gli altrui fatti apprender da costoro
Di spiar poco, e di parlarne meno.

Questi per troppo dir puniti fôro;
Nè riguardò chi lor punì, che fosse
D’ogni menzogna netto il detto loro.

Se degli offesi Dei sì l’ira mosse
L’esser del vero garruli e loquaci,
Che con eterna infamia ambi percosse;

Qual pena, qual obbrobrio a quegli audaci
Si converría, ch’altri biasmando vanno
Di colpe in che si sanno esser mendaci?

O di noi più non curano, o non hanno
Qua giù più forza, degli nostri casi
Quei che reggono il ciel più poco sanno.

Che non vi sieno ancor crederei quasi,
Se non ch’io veggio pur per cammin certo
L’estate, il verno andar, gli orti e gli occasi.

Ma se vi son, com’è da lor sofferto
Che lode e oltraggi, e che premi e supplici
Non sian secondo il buono e ’l tristo merto?

Lor debito saría dalle radici
Le malediche lingue sveller tosto,
Che di falsi rumor sono inventrici.

Qual altro più a martîr debb’esser posto,
Di quel che a donna abbia con falsi gridi
Biasmo di ch’essa sia innocente, imposto?

Peggio è che furti, e peggio è che omicidi,
Macchiar l’onor, che di ricchezza e vita
Sempre stimar più tra li saggi vidi.

Se per sentirsi monda, esser ardita
Femmina deve a far prova che in libro,
Meglio che in marmo, abbia a restar scolpita;

Nè a Tuzia che portò l’acqua nel cribro,
Nè cedo a quella Claudia che ’l naviglio
Della madre de’ Dei trasse pel Tibro.

Al ferro, al fòco, al tôsco, a ogni periglio
Chieggio d’espormi, per mostrar che a torto
Ho da portar per questo basso il ciglio.

Se non indegnamente in viso porto
Così importuna macchia, che potermi
Con poca acqua lavar pur mi conforto;

Cresca sì che mi cuopra, e poi si fermi,
Nè mai più mi si levi, e tutto il mondo
In ignominia sempre abbia a vedermi;

E séguiti il martir non pur secondo
Che fôra degno il fallo, ma il più grave
Ch’abbia l’inferno al tenebroso fondo.

Ma se si mente chi incolpata m’have;
Com’è sincero il cor, così di fuore
Ogni bruttezza presto mi si lave:

E tutto quel martir che a tanto errore
Si converría, veggia cader su l’empio
Che della falsa accusa è stato autore;

Sì che ne pigli ogni bugiardo esempio.




Elegia V 


Forza è al fin che si scuopra e che si veggia
Il gaudio mio, dianzi a gran pena ascoso,
Ancor ch’io sappia che tacer si deggia,

E quanto a dirlo altrui sia periglioso;
Perchè sempre chi ascolta è più proclive
Ad invidiar che ad esserne giojoso.

Ma, come quando alle calde aure estive
Si risolvono i ghiacci e nevi alpine,
Crescon i fiumi al par delle lor rive;

Ed alcun, dispregiando ogni confine,
Rompe superbo gli argini, ed inonda
Le biade, i paschi e le città vicine:

Così, quando soverchia e sovrabbonda
A quanto cape e può capire il petto,
Convien che l’allegrezza si diffonda,

E faccia rider gli occhi, e nell’aspetto
Gir con baldanza, e d’ogni nebbia mostri
L’aër del viso disgravato e netto.

Come si fan con lor mordaci rostri
Gl’ingrati figli porta per uscire
Degli materni viperini chiostri;

Di nascer sì gli affretta il fier desire,
Che non attendon che la madre grave
Possa l’un dopo l’altro partorire:

Così li gaudî miei, ch’in le più cave
Parti posi di me, per tener chiusi,
Negan star più sotto custodia e chiave;

Tentano altro cammin, poich’io gli esclusi
Da quel che per la bocca, da chi viene
Dal petto, par che per più trito s’usi.

Di passar quindi omai tolta ogni spene,
Se ne vengon per gli occhi e per la fronte,
Dove raro non mai guardia si tiene.

Guardar si suole strada guado ponte,
Luogo facil a intrar; non dove sia
Fiume profondo inaccessibil monte.

Poi che vietar non posso lor tal via,
Che non faccian peggior effetto almeno,
Porrò ogni sforzo ed ogni industria mia.

Sáppial chi ’l vuol saper, ch’io son sì pieno,
Sì colmo di letizia e di contento,
Che non lo cape a una gran parte il seno;

Ma la cagion del gran piacer ch’io sento,
Non vuol che suoni voce snodi lingua:
E faccia Dio (se mai di ciò mi pento)

Che l’una svelta sia, l’altra si estingua.




Orlando furioso (link esterno) * 



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