Pier Paolo Pasolini (1922-1975) 

La pioggia 

Nell’orto geme un lungo mormorio
di pioggia con un magico arpeggiare
lieve, interrotto. I gridi dei cugini
ritornano dagli anni dell’infanzia,
mentre l’acqua (e già la sera) non si placa

sopra le vecchie tegole e le pietre.

Arrivava la sera nel silenzio
dei nostri morti giochi. Perchè tristi

noi chinavamo il volto, dalla pioggia
quasi attratti lontano?

Ora pago
quella tristezza antica e nel rumore
che si trascina dai tetti alla campagna,

respiro il mio passato, e quegli incanti

(il fuoco acceso nella casa, il fumo
greve nell’aria fresca, i malinconici
lumi, la voce stanca di mia mamma)
ravviva questo odore e questo arcano
fantasticar di goccie sul mio tetto.

Nel vespro desolato

Nel vespro desolato
piove e non s’ode voce
per i campi, che suoni,
ma un mortale silenzio
sui cigli oscuri, i biancospini, o in qualche
praticello sperduto. Per un poco,
poi sai che il triste incanto
che t’ha assalito nulla
deve al vespro che spiove e nel sereno
s’oscura tristemente,
quando tra il mormorio dell’acqua stanca
si sente una campana batter l’ultima
ora del giorno: è amore
che, lontano dai campi,
dal ciglio appena verde
e dal borgo incolore
porta i sensi, che illude
la pioggia malinconica.
E se mia madre chiude
D’improvviso le imposte, ecco la sera
con piogge lontanissime cantare
sul tetto del fienile.
(E quella poca gioia,
quell’incanto ben lieve
anch’esso s’è perduto).

Io sono vivo, nella stanza, solo

Io sono vivo, nella stanza, solo.
Solo, siede il mio corpo, nel silenzio
sopra la vecchia sedia. Posa e ascolta
sereni risuonare nella notte
gli ultimi passi della gente (e alti
cantare due ragazzi la lor vita…)
Poi la pace usuale. Ma rivedo
se appena m’alzo e spingo un po’ la porta
dell’orticello, già perfetta in cielo
la luna, nuda tra le nubi. Solo,
con tutto il mondo, e oltre ad un sottile
soffio, la morte, io non so a che sogno
a che speranza mi sorreggo ancora
con questo capo e questo caldo corpo.




Le ceneri di Gramsci 

I

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite… questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie, l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,

quanto meno sventato e impuramente sano
dei nostri padri–non padre, ma umile
fratello–già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi? che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro; tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.


II

Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo.
Scelte, dedizioni… altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo

e nobile, in cui caparbio l’inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte

e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparse

inceneriti e non ancora casti.
Qui, il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo

a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la sera

rasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga… quest’erbetta stenta
e inodora, dove violette si sprofonda

l’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda

altro suolo; questo umido che 
ricorda altro umido; e risuonano–
familiari da latitudini e 

orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: “And O ye Fountains…”–le pie invocazioni…


III

Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei

morti: Le ceneri di Gramsci…Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi

alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato

e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)
E, da questo paese in cui non ebbe posa

la tua tensione, sento quale torto–
qui nella quiete delle tombe–e insieme
quale ragione–nell’inquieta sorte

nostra–tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme

non ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio

e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,
soffocato e accorante–dal dimesso

rione–ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso…povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in vetrine

dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito

è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade

di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo

l’odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso–
con te–il mondo, oggetto non appare

di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure, senza il tuo rigore, sussisto

perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio–nella sua miseria

sprezzante e perso–per un oscuro scandalo
della coscienza.


IV

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore–
nel pensiero, in un’ombra di azione–
mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più

io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…

Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?


V

Non dico l’individuo, il fenomeno
dell’ardore sensuale e sentimentale…
altri vizi esso ha, altro è il nome

e la fatalità del suo peccare…
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale

oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna

delle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce all’inganno.

Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche

le manie con cui dispone il cuore;
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza… e ironico ardore

liberale…e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale: di provinciale
salute…. Fino alle infime minuzie

in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia… Ben protetto
dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,

difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza! vive l’io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto

il senso di una vita che sia oblio
accorante, violento…Ah come
capisco, muto nel fradicio brusio

del vento, qui dov’è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l’anima il cui graffito suona

Shelley…Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordico

villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell’avventura, estetica

e puerile: mentre prostata l’Italia
come dentro il ventre di un’enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,

sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme

col membro gonfio tra gli stracci un sogno
goethiano, il giovincello ciociaro…
Nella Maremma, scuri, di stupende fogne

d’erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciolo, per viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.

Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,

le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,

dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa… Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico

di fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii

del mare… E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza

ne è l’Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome

del compagno i giovanetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardo,

in luride spiaggette…

Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?


VI

Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea

che al quartiere in penombra si rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e più lontano, lo riaccende

di una vita smaniosa che del roco
rotolio del tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco

e assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami

caseggiati dove si consuma l’infido
ed espansivo dono dell’esistenza–
quella vita non è che un brivido;

corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza–

forse più lieta della vita–come
d’un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione

che per l’operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l’umile corruzione. Quanto più è vano–

in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace–
ogni ideale, meglio è manifesta

la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando qua

nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine…

Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l’intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande

lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.

Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina…Manca poco alla cena;

brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d’operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,

verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d’immondizia
nell’ombra, rintanate zoccolette

che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo

a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti

di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa

vespertina; e scrosciano le saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,

e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i cappellacci

e i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.

E un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi

eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce… Ma io, con il cuore cosciente

di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?



Un comizio

Qui è più puro, nel suo quieto
terrore—se le sere ormai fonde
tremano agli ultimi brusii, poetici

di mera vita—l’incontro delle gronde
urbane con il buio del cielo.
E muri impalliditi, infeconde

aiuole, magri cornicioni, nel mistero
che li imbeve dal cosmo, familiare
e gaio fondono il loro. Ma stasera

un improvviso rovescio sulle ignare
fantasie del passante frana, e gela
il suo trasporto per le calde, care

pareti sconsacrate…

Non più, come un androne, di passi sonori
perché rari, di voci trasparenti
perché quiete, tra splendori

d’umile pietra, la piazza negli spenti
angoli trasale: né solitarie
frusciano le macchine dei potenti,

sfiorando il fianco del giovane paria
che inebbria coi suoi fischi la città…
Una smorta folla empie l’aria

d’irreali rumori. Un palco sta
su essa, coperto di bandiere,
del cui bianco il bruno lume fa

un sudario, il verde acceca, annera
il rosso come di vecchio sangue. Arista
o tetro vegetale guizza cerea

nel mezzo la fiammella fascista.


Il dolore, inatteso, mi rispinge
indietro, quasi a non voler vedere.
E invece con le lacrime che stingono

intorno il mondo così vivo, a sera
nella piazza, mi sospingo come
disincarnato in mezzo a questa fiera

di ombre. E guardo, ascolto. Roma
intorno è muta: è il silenzio, insieme,
della città e del cielo. Non risuona

voce su queste grida; il caldo seme
che il maggio germoglia pur nel fresco
notturno, un greve e antico gelo preme

sui muri preziosi, fatti mesti
come nei sensi di un fanciullo
angosciato… E più qui crescono

gli urli (e in cuore l’odio), più brullo
si fa intorno il deserto
dove il consueto, pigro sussurro

s’è stasera sperduto…


Ecco chi sono gli esemplari vivi,
vivi, di una parte di noi che, morta,
ci aveva illuso d’esser nuovi—privi

d’essa per sempre. E invece, scorta
d’improvviso, in questa lieve piazza
orientale, ecco la sua falange, folta,

urlante—coi segni della razza
che nel popolo è oscura allegria
e in essa triste oscurità—che impazza

cantando la salute. E l’energia
sua non è che debolezza, offesa
sessuale, che non ha altra via

per essere passione, nella mente accesa,
che azioni troppo lecite od illecite:
e qui urla soltanto la borghese

impotenza a trascendere la specie,
la confusione della fede che
l’esalta, e disperatamente cresce

Nell’uomo che non sa che luce ha in sé.


Resto in piedi tra questa folla quasi
il gelo, che da Trinità dei Monti,
dai duri vegetali del Pincio, rasi

contro le stelle e i chiusi orizzonti
spegne la città—mi spegnesse il petto,
rendendo puro stupore i monchi

sentimenti, pietà, amarezza. Getto
intorno sguardi che non mi sembran miei,
tanto sono diverso. Non è l’aspetto

di gente viva con me, questo, nei
suoi visi c’è un tempo morto che torna
inaspettato, odioso, quasi i bei

giorni della vittoria, i freschi giorni
del popolo, fossero essi, morti.
Per chi è andato avanti, ecco, intorno,

il passato, i fantasmi, i risorti
istinti. Questi visi giovanili
precocemente vecchi, questi storti

sguardi di gente onesta, queste vili
espressioni di coraggio. La memoria
era dunque così smorta e sottile

da non ricordarli? Tra i clamori
cammino muto, o forse sono muti
essi, nella tempesta che ho nel cuore.


E nel senso di perdita del proprio
corpo, che dà un’angoscia improvvisa,
il silenzio al fianco mi si scopre

un compagno. Con me, intento e indeciso,
si muove tra la ressa, con me guarda
nei visi questa gente, con me il misero

corpo trascina tra petti che coccarde
colmano di vile orgoglio. Poi su me
posa lo sguardo. Tristemente gli arde

col pudore che ben conosco; ed è
così mio quello sguardo fraterno!
così profondamente familiare, nel

pensiero che dà a questi atti senso eterno!
E in questo triste sguardo d’intesa,
per la prima volta, dall’inverno

in cui la sua ventura fu appresa,
e mai creduta, mio fratello mi sorride,
mi è vicino. Ha dolorosa e accesa,

nel sorriso, la luce con cui vide,
oscuro partigiano, non ventenne
ancora, come era da decidere

con vera dignità, con furia indenne
d’odio, la nuova nostra storia: e un’ ombra,
in quei poveri occhi, umiliante e solenne…

Egli chiede pietà, con quel suo modesto,
tremendo sguardo, non per il suo destino,
ma per il nostro… Ed è lui, il troppo onesto,

il troppo puro, che deve andare a capo chino?
Mendicare un po’ di luce per questo
mondo rinato in un oscuro mattino?



Quadri Friulani 

Senza cappotto, nell’aria di gelsomino
mi perdo nella passeggiata serale,
respirando—avido e prostrato, fino

a non esistere, a essere febbre nell’aria–
la pioggia che germoglia e il sereno
che incombe arido su asfalti, fanali,

cantieri, mandrie di grattacieli, piene
di sterri e di fabbriche, incrostati
di buio e di miseria…

Sordido fango indurito, pesto, e rasento
tuguri recenti e decrepiti, ai limiti
di calde aree erbose… Spesso l’esperienza

espande intorno più allegria, più vita,
che l’innocenza: ma questo muto vento
risale dalla regione aprica

dell’innocenza… L’odore precoce e stento
di primavera che spande, scioglie
ogni difesa nel cuore che ho redento

con la sola chiarezza: antiche voglie,
smanie, sperdute tenerezze, riconosco
in questo smosso mondo di foglie.

Le foglie dei sambuchi, che sulle rogge
sbucano dai caldi e tondi rami,
Tra le reti sanguigne, tra le logge

giallognole e ranciate dei friulani
venchi, allineati in spoglie prospettive
contro gli spogli crinali montani,

o in dolci curve lungo le festive
chine delle prodaie… Le foglie
dei ragnati pioppi senza un brivido

ammassati in silenziose folle
in fondo ai deserti campi di medica;
le foglie degli umili alni, lungo le zolle

spente dove ardenti pianticine lievita
il frumento con tremolii già lieti;
le foglie della dolcetta che copre tiepida

l’argine sugli arazzi d’oro dei vigneti.


Ti ricordi di quella sera a Ruda?
Quel nostro darsi, insieme, a un gioco
di pura passione, misura della nostra cruda

gioventù, del nostro cuore ancora poco
più che puerile? Era una lotta
bruciante di se stessa, ma il suo fuoco

si spandeva oltre noi; la notte,
ricordi? Ne era tutta piena nel fresco
vuoto, nelle strade percorse da frotte

di braccianti vestiti a festa,
di ragazzi venuti in bicicletta
dai borghi vicini: e la mesta,

quotidiana, cristiana, piazzetta
ne fiottava come in una sagra.
Noi, non popolani, nella stretta

Del popolo contadino, della magra
folla paesana, amati quanto
ci ardeva l’amare, feriti dall’agra

notte ch’era loro, del loro stanco
ritorno dai campi nell’odore
di fuoco delle cene… uno a fianco

all’altro gridavamo le parole
che, quasi incomprese, erano promessa
sicura, espresso, rivelato amore.

E poi le canzoni, i poveri bicchieri
di vino sui tavoli dentro la buia
osteria, le chiare facce dei festeggeri

intorno a noi, i loro certi occhi sui
nostri incerti, le scorate armoniche
e la bella bandiera nell’angolo più

in luce dell’umido stanzone.


Ora, lontano, diverso, nel vento quasi
non terrestre che smuovendo l’aria
impura, trae vita da una stasi

mortale delle cose, rivedo i casali,
i campi, la piazzetta di Ruda;
su, le bianche alpi, e giù, lungo i canali,

tra campi di granoturco e vigne, l’umida
luce del mare. Ah, il filo misterioso
si dipana ancora: e in esso, nuda,

la realtà—l’irreale Qualcosa
che faceva eterna quella sera.
L’aria tumefatta e festosa

dei tuoi primi quadri, dov’era
il verde un verde quasi di bambino
e il giallo un’indurita cera

di molle Espressionista, e le chine
spigolatrici, spettri del caldo sesso
adolescente—brulicava al confine

di quel luogo segreto, dove oppresso
da un sole eternamente arancio
dolcissimo è il meriggio estivo, e in esso

arde una crosta di profumi, un glauco
afrore d’erbe, di sterco, che il vento
rimescola…

Tu lo sai quel luogo, quel Friuli
che solo il vento tocca, ch’è un profumo!
Da esso scende sopra i tuoi oscuri

suonatori di flauto, il dolce grumo
dei neri e dei violetti, e si espande
da esso iridescente il bitume

sui tuoi Cristi inchiodati tra falde
di luce franata dai transetti d’Aquileia,
e reduci da esso, nelle calde

Sere riverberanti della Bassa o nei
bianchi mattini gelati nei canali,
vanno i tuoi pescatori verdi di veglie,

a cui arrossa le rozze rughe il sale,
o giovanili nereggiano i braccianti
sulle scarpate del traghetto serale,

appoggiati ai manubri, stanchi,
bruciati, mentre la notte già s’annuncia
nel triste borgo con le luci e i canti.


E il vento, da Grado o da Trieste
o dai magredi sotto le Prealpi,
soffia e rapisce dalle meste

voci delle cene, qualche palpito
più puro, o nel brusio delle paludi
qualche più sgomento grido, o qualche

più oscuro senso di freschezza nell’umido
deserto degli arativi, dei canneti,
Delle boschine intorno ai resultumi…

Sono sapori di quel mondo quieto
e sgomento, ingenuamente perso
in una sola estate, in un solo vecchio

inverno—che in questo mondo diverso
spande infido il vento. Ah quando
un tempo confuso si rifà terso

nella memoria, nel vero tempo che sbanda
per qualche istante, che sapore di morte…
Non ne stupisco, se a questi istanti

di disfatta e di veggenza, mi portano
anni consumati in una chiarezza
che non muta il mondo, ma lo ascolta

nella sua vita, con inattiva ebbrezza…


Felice te, a cui il vento primaverile
sa di vita; se hai scelto un’unica vita
e, insieme, più adulto e giovanile

del tuo amico, sordo all’infinita
Stagione di cui così imbevuto vivi,
sordo al Qualcosa che ti invita

a ritornare ai tristi, ai sorgivi
sogni dell’esistenza—alla coscienza
squisita che svela il mondo in brividi

non umani—credi nel mondo senza
altra misura che l’umana storia:
nei colori in cui fiammeggia la presenza

di un Friuli espresso in speranze e dolori
d’uomini interi, se pur fatti da orale
rozza esperienza uomini, se pur con cuori

duri come le mani, e spinti a non parlare
Altra lingua che il troppo vivo dialetto,
persi in albe e vespri a lavorare

la loro vigna, il loro campetto,
quasi non fosse loro, a festeggiare
le lucenti domeniche col petto

pieno del buio delle vecchie campane.


E quale forza nel voler mutare
il mondo—questo mondo perduto
in malinconie, in allegrie pasquali,

giocondamente vivo anche se muto!
Quale forza nel vederne le sere
e i mattini, chiusi nel rustico

lume, quasi sere e mattini di ère
future, ardenti più di fede che d’affetto!
È floridezza e gioia, questo volere

violentemente essere espresso
che, in roventi vampe d’evidenza,
gonfia di spazio ogni umile oggetto.

Ne avvampano le incolori biciclette
di Cervignano, ammassate ai posteggi
delle sagre, lungo i poveri muretti

scottati dal sole, o ai tarlati ormeggi
dei traghetti sui turchini canali;
ne avvampano le camicie di tela, i greggi

calzoni degli allegri manovali
di Snia Viscosa, a file sugli asfalti
dello stradone…

E il polverone del sole e della pula
che ammassa e sfregola arancio e giallo
in un cantone perso nell’arsura

tra smunti salici, come in un ballo
domenicale, confinato sulle rive
del Tagliamento, o tra le arse valli

delle bonifiche, o sulle risorgive
lattee di magri fusti: dove assordante
la trebbia scuote col massiccio brivido

tettoie e stalle, in un ringhio osannante,
impastato di luce, di sudore umano,
del puzzo del vecchio e innocente branco

dei cavalli ammassati in un fulgore di rame…
L’amore di Ruda, gridato dal rosso
palco di povere casse, rimane

puro nella tua vita. E chi, scosso
dalla paura di non essere abbastanza puro,
aspira nel vento di primavera lo smosso

sapore della morte, invidia il tuo sicuro
espanderti nei solenni, festanti colori
dell’allegria presente, del sereno futuro.

Una polemica in versi 

Buio è quasi il meriggio nel lucore
terreo del coppedè vivace
e del marmo fascista, già incolore

quasi disusata divisa d’orbace
di cinici antemarcia non più di primo pelo,
in una sporca fotografia; giace

schermato il sole come in un velo
di grassi, di carta carbone,
di polvere alzata dagli urti sul nero

fondo dei tricicli, dalle gomme
dei filobus che ansando ai semafori
scendono soffici in una pressione

avara, pazzi per mafia
o nevrastenia: e svoltano verdi
per via Quattro Novembre, nell’afa…

È la sera che scende, ancor lontana:
come una tempesta, quando addensa
a un tratto le nuvole, ma le dipana

poi lentamente – della sua violenza
abbandonando in cielo la minaccia.
Scolorato il sole fa più intensa

la sua luce, e ogni strada, ogni piazza
quasi in silenzio brulica al frastuono
d’una gente, ch’è solo folla, razza.

«L’ora è confusa, e noi come perduti
la viviamo…», mi mormoravi, amaro,
disilluso di ciò che hai avuto

per dieci anni dentro, così chiaro
che tra mondo e mente quasi era un idillio:
e ha la tua stanchezza–un po’ volgare–

una smorfia di vecchio figlio
di immigrati meridionali
affamati e vili dietro il cipiglio

di poveri arrivati, d’ingenui dottrinari.
Hai voluto che la tua vita fosse
una lotta. Ed eccola ora sui binari

morti, ecco cascare le rosse
bandiere, senza vento. Hai
quarant’anni, con sorriso e mosse

–come quelle di chi non spegne mai
il vecchio fuoco–giovanili.
E, spento, regredito ai padri, ti dai

a me, con la confidenza dei febbrili
moti dell’amicizia, e con il calcolo
di chi, inconscio, invano non si umili.

E io… io cedo: posso soltanto
appassionarmi, come sempre: pazzo,
ché dovrei tacere, non offrire il fianco,

non confessare che sono un ragazzo,
ancora, eternamente indifeso;
che non sempre la passione è grazia.

Lo so, spesso ciò che ho avuto ho reso
con un atto che non è diverso
dall’arsione del lampo al magnesio.

Ho fissato col mio occhio inesperto
diventato atrocemente esperto – umile
fotografo che la notte inerte

batte dietro l’immoto miraggio del costume –
gli inutili angoli sperduti
del mondo, con qualche grido, qualche lume,

qualche parola di uomini venduti
nei più scuri mercati della vita.
Ne ho riportato attestati muti

d’allegria in cuore a una città nemica.
Grande, di questa città, è la notte,
e misera: mille fiati di scheletrita

luce getta il flash su file dirotte
di gioventù, torrenti di motori,
laghi d’angoli bui tra palpitanti grotte

e inanimati grattacieli. Ma, in cuore,
ognuno dei mille atti è lo stesso.
Uno, delle mille allegrie, il dolore.

Muti attestati di un popolo oppresso
e non conscio, diviso in scantinati,
tuguri, lotti – proletariato che il sesso

e il terrore tengono attaccato
alle sue strade di fango: ma, per strade
nuove – ancora ignote – a lui segnato

da avidità e cinismo, l’anima invade
la fame della storia. È già vecchio
il piano di lotta di ieri, cade

a pezzi sui muri il più fresco manifesto.
Muta, in una qualunque notte, il congegno
che fa la conoscenza luce dell’oggetto.

E la vita riappare più viva: segno
che qualcosa, in chi la viveva, muore.
Essa è proceduta nel disegno

che non ha fine: ma il vostro dolore
di non esserne più sul primo fronte,
sarebbe più puro, se nell’ora

in cui l’errore, anche se puro, si sconta,
aveste la forza di dirvi colpevoli.
Ma troppo fonda è, in voi, l’impronta

della lotta compiuta, nel grande e breve
decennio: vi siete assuefatti,
voi, servi della giustizia, leve

della speranza, ai necessari atti
che umiliano il cuore e la coscienza.
Al voluto tacere, al calcolato

parlare, al denigrare senza
odio, all’esaltare senza amore;
alla brutalità della prudenza

e all’ipocrisia del clamore.
Avete, accecati dal fare, servito
il popolo non nel suo cuore

ma nella sua bandiera: dimentichi
che deve in ogni istituzione
sanguinare, perché non torni mito,

continuo il dolore della creazione.
Come altri compagni di strada,
il mistico rigore d’un’azione

sempre pari all’idea, non vi chiedo: si paga,
anche questo, con l’aridità. Chi è ossesso
dal timore di essere ciò che fu nei gradi

del suo cammino, ciò che espresse
in ingenui ritorni al popolo, in amori
d’inerme umanitario, in regressi

alla carità – non è. È all’errore
che io vi spingo, al religioso
errore… Si riapre, nel rosso sole

del meriggio d’autunno ancora afoso,
in un’aria di morte, la vostra
festa. Misero e fazioso

è il brusio. Sparge in una chiostra
fra i tronchi freddi falsamente vivace,
le superfici candide la mostra

dei dieci anni d’ingiallite audacie.
Cento baracchette – dove quanto più
ciò che al popolo umilmente piace

cinicamente appare inattuale virtù
di plebe, tanto più è esaltato,
con ingenua ipocrisia,–su

per le misere gobbe, i bagnati
pendii di Villa Glori, empiono l’aria
primaverile della morente estate

di antichi frastuoni di sagra
alla deriva… A migliaia gli iscritti,
piovendo dai rioni dei paria,

vengono all’assalto, si accampano, fitti,
animosi. Snodati i ragazzi
dentro i panni festivi, ricchi

di nastri, fazzoletti, sono come pazzi
di pregustata gioia sotto i cappelli
messicani, rossi come sangue, e tra spiazzi

e albereti, si muovono in drappelli
disordinati, in branchi, soli,
masticando gomma americana, nella

loro generosità senza pudore.
Gli uomini, già perduti in un’abbietta
ubriachezza, nascosta come un dolore,

si portano dietro la famiglia, stretta
intorno alla sporta della merenda,
quasi guide verso la povera vetta…

E là in cima, sotto una tenda
investita dall’incendio senza calore
di cui metà del cielo risplende,

il palco, vuoto. Nulla accora
più di questa innaturale festa.
Tra i gridi più alti, affiora

fondo il silenzio. Nulla resta
di vivo: neanche i colpi acerbi
dei giovincelli pugili, in questa

arena tra i pini, improvvisata, superbi
sopra il piccolo ring, ai gridi
del pubblico accecato da diverbi

ironici e cattivi, allegri e infidi.
Eppure all’appressarsi del momento
più atteso della sera, ha un brivido

umano questo irretimento
di morte: ma non sai ancora
se a più intenso dolore o a più intenso

amore. D’improvviso, nell’aria ormai viola,
la folla nel parco sfigurato
è perduta in silenzi ed in clamori

d’altra vita, di sterminato
esercito, acclamante o in disfatta,
nell’ombra, di un vespro dimenticato.

Come un tremito o una cieca risacca
passa sulla folla. disordinata tra i clivi,
i prati senza erba, le baracche,

una musica intonata dalle bande
sparse qua e là, luccicando l’ottone
tra magliette e coccarde rosse,

nell’ingorgo del fiume senza nome.
Ed ecco, incerto, un vecchio si leva
dalla testa bianca il berretto,

afferra nella nuova ventata di passione
una bandiera retta sulle spalle
da uno che gli è davanti, al petto

se la stringe, e poi mentre cantano
tutti, affratellati intorno alle gialle
trombe paesane, si pianta

sulle vacillanti gambe, e scuote
al tempo la bandiera a lui santa
sopra le teste, cantando con voce

rauca, di povero manovale ubriaco.
Poi il canto, che s’era levato
gioioso, disperato, cessa, e il vecchio

lascia cadere la bandiera, e lento,
con le lacrime agli occhi,
si ricalca in capo il suo berretto.

Su questa baraonda della Villa, il buio
che sommerge la disperata allegria,
è, forse, più l’ombra del dubbio

che la precoce notte. È la nostalgia
dei vecchi tempi, la paura, pur bandita,
dell’errore, che spira tanta malinconia

–non l’aria d’autunno, o una sopita
pioggia – sulla sfiorita festa.
Ma in questa malinconia è la vita.



Da La ricchezza 

4: Serata Romana—Verso le Terme di Caracalla—Sesso, consolazione della miseria—Il mio desiderio di ricchezza—Trionfo della notte

Dove vai per le strade di Roma,
sui filobus o tram in cui la gente
ritorna? In fretta, ossesso, come
ti aspettasse il lavoro paziente
da cui a quest’ora gli altri rincasano?
È il primo dopocena, quando il vento
sa di calde miserie familiari
perse nelle mille cucine, nelle
lunghe strade illuminate,
su cui più chiare spiano le stelle.
Nel quartiere borghese, c’è la pace,
di cui ognuno dentro si contenta,
anche vilmente, e di cui vorrebbe
piena ogni sera della sua esistenza.
Ah, essere diverso—in un mondo che pure
è in colpa—significa non essere innocente…
Va, scendi, lungo le svolte oscure
del viale che porta a Trastevere:
ecco, ferma e sconvolta, come
dissepolta da un fango di altri evi
—a farsi godere da chi può strappare
un giorno ancora alla morte e al dolore—
hai ai tuoi piedi Roma…

Scendo, attraverso Ponte Garibaldi,
seguo la spalletta con le nocche
contro l’orlo rosicchiato della pietra,
dura nel tepore che la notte
teneramente fiata, sulla volta
dei caldi platani. Lastre d’una smorta
sequenza, sull’altra sponda, empiono
il cielo di lavato, plumbei, piatti
gli attici dei caseggiati giallastri.
E io guardo, camminando per i lastrici
slabbrati, d’osso, o meglio odoro
prosaico ed ebbro—punteggiato d’astri
invecchiati e di finestre sonore–
il grande rione familiare:
la buia estate lo indora,
umida, tra le sporche zaffate,
che il vento piovendo dai laziali,
prati spande su rotaie e facciate.

E come odora, nel caldo, così pieno,
da esser esso stesso spazio,
il muraglione, qui sotto:
da ponte Sublicio fino sul Gianicolo
il fetore si mescola all’ebbrezza
della vita che non è vita.
Impuri segni che di qui sono passati
vecchi ubriachi di Ponte, antiche
prostitute, frotte di sbandata
ragazzaglia: impure traccie
umane che, umanamente infette
son lì a dire, violente e quiete,
questi uomini, i loro bassi diletti
innocenti, le loro misere mete.


*

Vanno verso le Terme di Caracalla
giovani amici, a cavalcioni
di Rumi o Ducati, con maschile
pudore e maschile impudicizia,
nelle pieghe calde dei calzoni
nascondendo indifferenti, o scoprendo,
il segreto delle loro erezioni…
Con la testa ondulata, il giovanile
colore dei maglioni, essi fendono
la notte, in un carosello
sconclusionato, invadono la notte,
splendidi padroni della notte…

Va verso le Terme di Caracalla,
eretto il busto, come sulle natìe
chine appenniniche, fra tratturi
che sanno di bestia secolare e pie
ceneri di berberi paesi—già impuro
sotto il gaglioffo basco impolverato,
e le mani in saccoccia—il pastore migrato
undicenne, e ora qui, malandrino e giulivo
nel romano riso, caldo ancora
di salvia rossa, di fico e d’ulivo…

Va verso le Terme di Caracalla,
il vecchio padre di famiglia, disoccupato,
che il feroce Frascati ha ridotto
a una bestia cretina, a un beato,
con nello chassì i ferrivecchi
del suo corpo scassato, a pezzi,
rantolanti: i panni, un sacco,
che contiene una schiena un po’ gobba,
due cosce certo piene di croste,
i calzonacci che gli svolazzano sotto
le saccocce della giacca pese
di lordi cartocci. La faccia
ride: sotto le ganasce, gli ossi
masticano parole, scrocchiando:
parla da solo, poi si ferma,
e arrotola il vecchio mozzicone,
carcassa dove tutta la giovinezza,
resta, in fiore, come un focaraccio
dentro una còfana o un catino:
non muore chi non è mai nato.

Vanno verso le Terme di Caracalla
……………………………………………………


*

Sesso, consolazione della miseria!
La puttana è una regina, il suo trono
è un rudere, la sua terra un pezzo
di merdoso prato, il suo scettro
una borsetta di vernice rossa:
abbaia nella notte, sporca e feroce
come un’antica madre: difende
il suo possesso e la sua vita.
I magnaccia, attorno, a frotte,
gonfi e sbattuti, coi loro baffi
brindisi o slavi, sono
capi, reggenti: combinano
nel buio, i loro affari di cento lire,
ammiccando in silenzio, scambiandosi
parole d’ordine: il mondo, escluso, tace
intorno a loro, che se ne sono esclusi,
silenziose carogne di rapaci.

Ma nei rifiuti del mondo, nasce
un nuovo mondo: nascono leggi nuove
dove non c’è più legge; nasce un nuovo
onore dove onore è il disonore…
Nascono potenze e nobiltà,
feroci, nei mucchi di tuguri,
nei luoghi sconfinati dove credi
che la città finisca, e dove invece
ricomincia, nemica, ricomincia
per migliaia di volte, con ponti
e labirinti, cantieri e sterri,
dietro mareggiate di grattacieli,
che coprono interi orizzonti.

Nella facilità dell’amore
il miserabile si sente uomo:
fonda la fiducia nella vita, fino
a disprezzare chi ha altra vita.
I figli si gettano all’avventura
sicuri d’essere in un mondo
che di loro, del loro sesso, ha paura.
La loro pietà è nell’essere spietati,
la loro forza nella leggerezza,
la loro speranza nel non avere speranza.


*

Vado anch’io verso le Terme di Caracalla,
pensando—col mio vecchio, col mio
stupendo privilegio di pensare…
(E a pensare in me sia ancora un dio
sperduto, debole, puerile:
ma la sua voce è così umana
ch’è quasi un canto.) Ah, uscire
da questa prigione di miseria!
Liberarsi dall’ansia che rende
così stupende queste notti antiche!
C’è qualcosa che accomuna chi sa l’ansia
e chi non la sa: l’uomo ha umili desideri.
Prima d’ogni altra cosa, una camicia candida!
Prima d’ogni altra cosa, delle scarpe buone,
dei panni seri! E una casa, in quartieri
abitati da gente che non dia pena,
un appartamento, al piano più assolato,
con tre, quattro stanze, e una terrazza,
abbandonata, ma con rose e limoni…

Solo fino all’osso, anch’io ho dei sogni
che mi tengono ancorato al mondo,
su cui passo quasi fossi solo occhio…
Io sogno, la mia casa sul Gianicolo,
verso Villa Pamphili, verde fino al mare:
un attico, pieno del sole antico
e sempre crudelmente nuovo di Roma;
costruirei, sulla terrazza, una vetrata
con tende scure, di impalpabile tela:
ci metterei, in un angolo, un tavolo
fatto fare apposta, leggero, con mille
cassetti, uno per ogni manoscritto
per non trasgredire alle fameliche
gerarchie della mia ispirazione…
Ah, un po’ d’ordine, un po’ di dolcezza,
nel mio lavoro, nella mia vita…
Intorno metterei sedie e poltrone,
con un tavolinetto antico, e alcuni
antichi quadri, di crudeli manieristi,
con le cornici d’oro, contro
gli astratti sostegni delle vetrate…
Nella camera da letto (un semplice
lettuccio, con coperte infiorate
tessute da donne calabresi o sarde)
appenderei la mia collezione
di quadri che amo ancora: accanto
al mio Zigaina, vorrei un bel Morandi,
un Mafai, del quaranta, un De Pisis,
un piccolo Rosai, un grande Guttuso…


*

La catasta dei ruderi arancione
che la notte con il fresco colore
del tartaro infanga, dei bastioni
di leggera pomice, erborei,
monta nel cielo: e più vuote
sotto, le Terme di Caracalla al bruciore
della luna spalancano l’immoto
bruno dei prati senza erbe, dei pesti
rovi: tutto svapora e si fa fioco
tra colonnati di caravaggesca polvere,
e ventagli di magnesio,
che il cerchietto della luna campestre
scolpisce in fumate iridescenti.
Da quel grande cielo, ombre grevi,
scendono i clienti, soldati pugliesi
o lombardi, o giovincelli di Trastevere,
isolati, a bande, e nel basso piazzale
sostano dove le donne, arse e lievi
come stracci scossi dall’aria serale,
rosseggiano, urlando—quale bambina
sordida, quale innocente vecchia, e quale
madre: e in cuore alla città che vicina
preme con raschi di tram e groppi
di luci, aizzano, nella loro Caina,
i calzoni duri di polvere che si spingono,
capricciosi, agli sprezzanti galoppi
sopra rifiuti e livide rugiade.


5: Continuazione della serata a San Michele – Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano—Proiezione al ”Nuovo” di Roma città aperta

Testimone e partecipe di questa
bassezza e miseria, ritorno
lungo la corallina spalletta,
contratto nel batticuore—supino
nella sete di sapere, nell’ansia di capire,
che non ha, nella vita, mai fine
anche se la vita, pur febbrile,
è recidiva monotonia, vizio
del ricadere e del cieco risentire…

E come se Roma o il mondo avesse inizio
in questa vecchia sera, in questi odori
millenari, cammino lungo il precipizio
che barbaro il Tevere apre tra dormitori
sordidi, e spagnoleschi quartieri
di terracotta, piazzali dagli splendori
ridotti a qualche barocca e cerea
voluta di chiesa sconsacrata
e ora magazzino, tra vicoli neri
che polvere, luna, vecchiezza, empietà
coprono di biancore—cartilagine
che fa sonori i selciati alla pedata.

Imbocco San Michele, tra muraglie
basse, quasi di casematte, piazze
Granulose su cui la luna abbaglia
come su decrepita ghiaia, terrazze
dove occhieggia un garofano
o una testa d’aruta, che ragazze
in vestaglia annacquano: e l’aria muta
porta le loro voci di prigioniere
tra mura di tufo con porte come buche
e bifore sbilenche. Ma risuonano fiere
le grida dei maschi ancora teneri che
rincasano dai primi spettacoli, canottiere
e magliette svolazzanti sopra le
vite strette e discinte… Nella piazzetta
sotto casa, sostano, intorno al caffè
già vuoto, o più in là tra le carrette
o i camion ruggini in file inanimate
dove più arde la luna, e i vicoletti,
sboccando, sono più bui—o illuminati
appena per svelare, di sbieco,
in una pietra leggera e disossata
Come spugna, qualche gonfia parete
incrostata di rosoni e bugnati;
e, su questo messicano rione, rispecchia
il cielo il suo incanto ignorato,
con vapori freschi come buccia di mela,
sulle casupole del proletariato
che festeggia, rissoso e umile, la sera.


*

Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d’una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell’ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c’è come l’aria d’un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell’occhio, l’ironia
che trapela il suo umido, rosso
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
Fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n’hanno, usano lusinghe
abiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce piene.
Se lavorano—lavoro di mafiosi macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani—avviene
che abbiano ugualmente un’aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene…

Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un’anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati…
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l’angosciosa scommessa,
a dirsi: ”È fatta”, con un ghigno di re…
La nostra speranza è ugualmente ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.


*

Ma che colpo al cuore, quando, su un liso
cartellone… Mi avvicino, guardo il colore
già d’un altro tempo, che ha il caldo viso
ovale, dell’eroina, lo squallore
eroico del povero, opaco manifesto.
Subito entro: scosso da un intenso clamore,
deciso a tremare nel ricordo,
a consumare la gloria del mio gesto.
Entro nell’arena, all’ultimo spettacolo,
senza vita, con grigie persone,
parenti, amici, sparsi sulle panche,
persi nell’ombra in cerchi distinti
e biancastri, nel fresco ricettacolo…
Subito, alle prime inquadrature,
mi travolge e rapisce… l’intermittence
du cœur. Mi trovo nelle scure
vie della memoria, nelle stanze
misteriose dove l’uomo fisicamente è altro,
e il passato lo bagna col suo pianto…
Eppure, dal lungo uso fatto esperto,
non perdo i fili: ecco… la Casilina,
su cui tristemente si aprono
le porte della città di Rossellini…
Ecco l’epico paesaggio neorealista,
coi fili del telegrafo, i selciati, i pini,
i muretti scrostati, la mistica
folla perduta nel daffare quotidiano,
le tetre forme della dominazione nazista…
Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani,
sotto le ciocche disordinatamente assolute,
risuona nelle disperate panoramiche,
e nelle sue occhiaie vive e mute
si addensa il senso della tragedia.
È lì che si dissolve e si mutila
il presente, e assorda il canto degli aedi.

Appendice alla ”Religione”: Una luce 

Pur sopravvivendo, in una lunga appendice
di inesausta, inesauribile passione
—che quasi in un altro tempo ha la radice—

so che una luce, nel caos, di religione,
una luce di bene, mi redime
il troppo amore nella disperazione…

È una povera donna, mite, fine
che non ha quasi coraggio di essere
e se ne sta nell’ombra, come una bambina,

coi suoi radi capelli, le sue vesti dimesse,
ormai, e quasi povere, su quei sopravvissuti
segreti che sanno, ancora, di violette;

con la sua forza, adoperate nei muti
affanni di chi teme di non essere pari
al dovere, e non si lamenta dei mai avuti

compensi: una povera donna che sa amare
soltanto, eroicamente, ed essere madre
è stato per lei tutto ciò che si può dare.

La casa è piena delle sue magre
membra di bambina, della sua fatica:
anche a notte, nel sonno, asciutte lacrime

coprono ogni cosa: e una pietà così antica,
così tremenda mi stringe il cuore
rincasando, che urlerei, mi toglierei la vita.

Tutto intorno ferocemente muore,
mentre non muore il bene che è in lei
e non sa quanto il suo umile amore,

—poveri, dolci ossicini miei—
possano nel confronto quasi farmi morire
di dolore e vergogna, quanto quei

suoi gesti angustiati, quei suoi sospiri
nel silenzio della nostra cucina,
possano farmi apparire impuro e vile…

in ogni ora, tutto è ormai, per lei, bambina,
per me, suo figlio, e da sempre, finito:
non resta che sperare che la fine

venga davvero a spegnere l’accanito
dolore di aspettarla.  Saremo insieme,
presto, in quel povero prato gremito

di pietre grigie, dove fresco il seme
dell’esistenza dà ogni anno erbe e fiori:
nient’altro ormai che la campagna preme

ai suoi confini di muretti, tra i voli
delle allodole, a giorno, e a notte,
il canto disperato degli usignoli.

Farfalle e insetti ce n’è a frotte,
fino al tardo settembre, la stagione
in cui torniamo, lì dove le ossa

dell’altro figlio tiene la passione
ancora vive nel gelo della pace:
vi arriva, ogni pomeriggio, depone

i suoi fiori, in ordine, mentre tutto tace
intorno, e si sente solo il suo affanno,
pulisce la pietra, dove, ansioso, lui giace,

poi si allontana, e nel silenzio che hanno
subito ritrovato intorno muri e solchi,
si sentono i tonfi della pompa che tremando

lei spinge con le sue poche forze,
volonterosa, decisa a fare ciò che è bene:
e torna, attraversando le aiuole folte

di nuova erbetta, con quei suoi vasi pieni
d’acqua per quei fiori… Presto
anche noi, dolce superstite, saremo

perduti in fondo a questo fresco
pezzo di terra: ma non sarà una quiete
la nostra, ché si mescola in essa

Troppo una vita che non ha avuto meta.
avremo un silenzio stento e povero,
un sonno doloroso, che non reca

dolcezza e pace, ma nostalgia e rimprovero,
la tristezza di chi è morto senza vita:
se qualcosa di puro, e sempre giovane,

vi resterà sarà il tuo mondo mite,
la tua fiducia, il tuo eroismo:
nella dolcezza del gelso e della vite

o del sambuco, in ogni alto o misero
segno di vita, in ogni primavera, sarai
tu; in ogni luogo dove un giorno risero,

e di nuovo ridono, impuri, i vivi, tu darai
la purezza, l’unico giudizio che ci avanza,
ed è tremendo, e dolce: ché non c’è mai

disperazione senza un po’ di speranza.



A uno spirito 

Solo perché sei morto, ho potuto parlarti come a un uomo:
    altrimenti le tue leggi me l’avrebbero impedito.
Nessuno ti difende, adesso: il mondo morto e istituito
    di cui eri figlio e padrone, ti lascia solo.
Attonita salma di vecchio uomo, balbettante fantasma,
    che cominci, sperduto, a affondare nei tempi:
finalmente mi sei fratello, odio e amore ci uniscono,
    il mio corpo ancora vivo e il tuo cadavere
sono stretti da un legame che ci rende spiriti.
    Ma per una parola di condanna detta contro di te,
povero peccatore, spogliato, degradato dalla morte,
    reso nudo e implorante come un implume,
quante parole devo comprimermi ancora in cuore!
    Hai lasciato un posto vuoto, e, in questo posto,
un altro, intoccabile perché vivo, comincia a regnare.
    Ma « morte non regnerà » ! Solo in questo assurdo stato
dove sopravvivono sopra di noi Bisanzio e Trento,
    regna la morte: ma io non sono morto, e parlerò.



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