Salvator Rosa (1615-1673)

Satira seconda

LA POESIA

“Le colonne spezzate e rotti i marmi
là fra i platani suoi divelti e scossi
Fronton rimira a l’eccheggiar de’ carmi,

ché da furore ascreo spinti e commossi
s’odono ognor tanti poeti e tanti,
che manco gente in Maratona armossi.

Suonan per tutto le ribeche e i canti
e si vedon, sol d’acqua inebriati,
i seguaci d’Apollo andar baccanti:

quei narra d’Eolo i prigionieri alati,
di Vulcano e di Marte antri e foreste,
e del giudice inferno i rei dannati;

questi in mezzo agl’incanti e le tempeste
canta i velli rapiti; altri descrive
di Teseo i fatti e le pazzie d’Oreste;

lazie togate e palliate argive
altri specola e detta, e sempre astratto
affettate elegie compone e scrive.

Maggior poeta è chi più dà nel matto,
tutti cantano omai le cose istesse,
tutti di novità son privi affatto.”

In tali accenti alte querele espresse
quel che, nato in Aquino, i propri allori
nel suol d’Arunca a coltivar si messe;

così di Pindo i violati onori
pianger ne’ colli suoi sentì già Roma
dal flagello maggior de’ prischi errori.

Et oggi il tosco mio guasto idioma
non avrà il suo Lucilio? Oggi ch’ascende
ciascuno in Dirce a coronar la chioma?

Non irrita il mio sdegno e non mi offende
sola viltà di stile: a mille accuse
più possente cagione il cor m’accende.

Troppo al secolo mio si son diffuse
le colpe de’ poeti: arse e cadéo
la pianta virginal sacra a le Muse.

Tacer dunque io non vo’; nume Grineo,
tu mi detta le voci e tu m’inspira
il furor d’Archilòco e di Tirteo.

Reggi la destra tu; tolto a la lira,
spinga dardo teban nervo canoro,
or che dai vizi altrui fomento ha l’ira.

Conosco ben ch’a saettar costoro
incurvar si dovría corno cidonio,
ché lento esce lo stral d’arco sonoro.

Credon questi trattar plettro bistonio,
né d’Eumolpo giammai cotanto odioso
il lapidato stil finse Petronio.

No, che tacer non vo’! Ma poi dubbioso
donde io muova il parlar rimango in forse:
tanto ho da dir, ch’incominciar non oso;

sono l’infamie lor così trascorse
che, s’io ne vo’ trattar, le voci estreme
son dal silenzio in su l’uscir precorse.

Offre alla mente mia ristrett’insieme
un indistinto caos vizii infiniti
e di mille pazzie confuso il seme:

quinci i traslati e i paralleli arditi,
le parole ampollose e i detti uscuri,
di grandezza e decoro i sensi usciti;

quindi i concetti e mal espressi e duri,
con il capo di bestia il busto umano,
de la lingua stroppiata i modi impuri;

de l’iperboli qua l’abuso insano,
colà gl’inverisimili scoperti,
lo stil per tutto effeminato e vano;

il delfin nelle selve e ne’ deserti
ed il cignal nel mare e dentro a’ fiumi,
gli affetti vili e i latrocini aperti;

prive di nobiltà, prive di lumi
l’adulazioni e le lascivie enormi,
l’empietà verso Dio, verso i costumi.

Da tante e tante iniquità deformi
provo, acceso e confuso, e sprone e freno:
sofferenza irritata, a che più dormi?

Non vedi tu che tanto il mondo è pieno
di questa razza inutile e molesta,
che produrre i cantor sembra il terreno?

Per Dio, poeti, io vo’ sonare a festa!
Me non lusinga ambizion di gloria,
violenza moral mi sprona e desta.

Di passar per poeta io non ho boria;
vada in Cirra chi vuol, nulla mi preme
che sia scritta colà la mia memoria.

Oh che dolce follia di teste sceme!
Sul più fallito e sterile mestiero
fondare il patrimonio de la speme;

sopra un verso sudar l’alma e ‘l pensiero
a ciò che sia con numero costrutto,
s’ogni sostanza poi termina in zero!

Fiori e fronde che val sparger per tutto
s’alfin si vede, de gli autunni al giro,
che di Parnaso il fior non fa mai frutto?

Con lusinghiero e placido deliro
va il poeta spogliando Ermo e Coaspe,
Sisno, Bermio, Petorsi, Ormus e Tiro;

saccheggia il Tago e sviscera l’Idaspe,
e mai si trova un soldo, al far de’ conti,
tra le gemme del Parto e l’Arimaspe.

Poeti, è ver ch’Apollo abita i monti,
ma questo non vuol dir che voi speriate
d’averci a posseder luoghi di monti,

ché possibil non è che voi troviate
fra quanti colli a Clario il tempo eresse
i monti di San Spirto o di Pietate.

Io non so dove fondate la messe,
s’altro il seme non dà del clizio dio
che raccolta d’applausi e di promesse.

Superate la fame, e poi l’oblio,
ché voi non manderete il grano a frangere
se non prendete Cerere per Clio.

Il vostro stato è troppo da compiangere
mentre vi mira ognun, cingli dispersi,
cantar per gloria e per miseria piangere.

A che star tutto il dì fra lettre immersi?
Noto è a le genti anco idiote e basse
che non si fan lettre di cambio in versi.

Giove io non leggo che sapienza amasse,
ché quando il mondo ancor vagiva in culla
avea Minerva in capo e se la trasse.

Quest’applauso che a voi tanto trastulla
dolce è per chi vivendo e l’ode e ‘l vede,
ché doppo morte non si sente nulla.

È più dotto oggidì chi più possiede,
scienza senza denar cosa è da sciocchi
e sudor di virtù non ha mercede;

per aver fama basta aver baiocchi,
ché l’immortalità si stima un sogno;
son galli i ricchi, e i letterati allocchi.

Quanto adesso vi dico io non trasogno:
da Pindo a l’ospedal facile è il varco,
poi ch’il sapere è padre del bisogno.

Buttate a terra la viola e l’arco,
ché in quest’età d’ignorantoni e mimi
già s’adempì la profezia d’Ipparco.

Presi già sono i luoghi più sublimi
et il proverbio pubblico risuona:
in ogn’arte e mestier, beati i primi!

Cangiato è il mondo: oh quanti ne minchiona
la foia de la guerra e de la stampa,
la pania de la corte e d’Elicona!

Sfortunato colui che l’orme stampa
ne’ liti di Libetro aridi e scarsi,
ch’o vi sta mal per sempre o non vi campa.

Torna il conto, o fratelli, a spoetarsi:
cantan sino i ragazzi a bocca piena,
ch’il poeta è il primiero a declinarsi.

Con più d’un guidaresco in su la schiena
a i nostri dì l’aganippeo poliedro
tanto smagrato è più quant’ha più vena;

l’opere a partorir degne di cedro
vi conducon le stelle in qualche stalla,
per ch’un cavallo è a voi duce e sinedro.

Chi veglia su le carte, oh quanto falla!
Ch’allottar con fortuna in questi giorni
esser unto non val d’umor di Palla;

né di Febo il calor riscalda i forni,
e se chiacchiere avete con la pala
non s’empion d’Amaltea con queste i corni.

Il rimedio a non far vita sì mala
è ben dover ch’oggi vi mostri, e insegni
la formica imitar, non la cicala;

non v’accorgete omai da tanti segni
che nell’inferno della povertade
sono l’alme dannate i bell’ingegni?

Chi di voi può mostrarmi una citade
ove una Musa sia grassa o gradita,
se chiuse son le generose strade?

Imparate qualch’arte onde la vita
tragga il pan quotidiano, e poi cantate
quanto vi par La bella Margarita.

Passa la gioventude e l’ore andate
la vecchiezza, mendica di sostanza,
bestemmia poi de la perduta etate;

e ‘l motto è noto e cognito a bastanza:
a chi la povertà fitta ha nell’ossa
refrigerante impiastro è la speranza.

Non aspettate l’ultima percossa,
né fate più da sericani vermi
che, stolti, da per lor si fan la fossa.

Appetir quel ch’offende uso è d’infermi.
Contro al vostro bisogno, al vostro male,
il saper di saper son frali schermi.

Ma volete un esempio naturale
che la vostra sciocchezza esprima al vivo
e rappresenti il vostro umor bestiale?

Era volato un dì, tutto giulivo,
con un pezzo di cacio parmigiano
il corvo in cima di un antico olivo.

La volpe il vide e s’accostò pian piano
per farlo rimanere un bel somaro,
s’il cacio li potea cavar di mano;

ma perché tra di loro eran del paro
scaltri e furfanti e, come dir si suole,
era tra galeotto e marinaro,

ella (che scorse avea tutte le scuole
et era masvigliacca in quintessenza)
cominciò verso lui con tai parole:

–Gran maestra è di noi l’esperienza;
essa ci guida in questa bassa riva,
madre di veritade e di prudenza.

Quando da un certo predicar sentiva
che la fama ha due facce et è fallace,
a maligna bugia l’attribuiva;

ma ora l’occhio è testimon verace
a quanto udì l’orecchio, e ben conosco
che questa fama è un animal mendace.

Già, perché si dicea che nero e fosco
eri più della pece e del carbone,
mi ti fingea spazzacamin da bosco.

Ma quant’è falsa l’immaginazione!
Tu sei più bianco che non è la neve,
e, pazza, io ti stimava un calderone.

Troppo gran danno la virtù riceve
da questa fama infame e scellerata,
sempre bugiarda, appassionata e lieve.

Perde teco, per Dio, la saponata!
Tu sembri giusto, tra coteste fronde,
tra le foglie di fico una gioncata;

e s’al candor la voce corrisponde
n’incachi quanti cigni alzano il grido
là nel Cefíso a le famose sponde.

Se tu cantar sapessi, io me la rido
di quanti uccelli ha il mondo. Eh, che tu sai
ch’in un bel corpo una bell’alma ha nido. –

Così disse la furba, e disse assai,
ch’il corvo, d’ambizion gonfiato e pregno,
crede saper quel che non seppe mai,

e per mostrar nel canto il bell’ingegno
si compose, si scosse e ‘l fiato prese
e a cantar cominciò sopra quel legno.

Ma mentre egli stordía tutto il paese
col solito crà crà, dal rostro aperto
cascò il formaggio e la comar lo prese;

onde per far da cantatore esperto
si ritrovò digiun, come quel cane
che lassò il certo per seguir l’incerto.

Così di Pindo, voi, musiche rane,
lasciate il proprio per l’appellativo
e per voler gracchiar perdete il pane;

ché, invece di un mestier fertile e vivo,
dietro a la morta e steril poesia
imparate a cantar sempre in passivo;

e tal possesso ha in voi quest’eresia
che per un po’ d’applauso ebri correte
a discoprir la vostra frenesia.

Balordi senza senno che voi sète!
Mentre andate morendo de la fame
d’immortalare altrui vi persuadete,

e sète così grossi di legname
che non udite ognun moversi a riso
in sentirvi lodar le vostre dame:

stelle gli occhi, arco il ciglio e cielo il viso,
tuoni e fulmini i detti e lampi i guardi,
bocca mista d’inferno e paradiso;

dir che i sospiri son bombe e petardi,
pioggia d’oro i capei, fucina il petto
dove il magnano Amor tempera i dardi;

et ho visto e sentito in un sonetto,
di bella donna a cui puzzava il fiato,
arca d’arabi odor, muschio e zibetto!

Le metafore il sole han consumato
e, convertito in baccalà, Nettuno
fu nomato da un certo il dio salato.

Sin la croce d’Idio fu da taluno
chiamata legno santo; e pur costoro
sfidan l’autor dell’itaco Nessuno;

e dell’amata sua con qual decoro
i pidocchi colui cantando disse:
sembran fère d’argento in selva d’oro?

E chi può creder ch’uno ingegno uscisse
dai gangani tant’oltre, e bagatelle
così arroganti di stampare ardisse?

Le nostr’alme trattar bestie da selle
mentre li serba il ciel, da’ corpi sgombre,
biada d’eternità, stalla di stelle!

E (a pensarlo il pensier vien che s’adombre)
fare il sol divenir boia che tagli
con la scura di raggi il collo a l’ombre!

Ma chi di tante bestie da sonagli
legger può le pazzie? I lor libracci
de le risa d’ognun sono i bersagli,

ché da certi eruditi animalacci
giornalmente a le tenebre si danno
mille strambotti e mille scartafacci;

e tale stima di se stessi fanno
e di tanta albaggía sono imbeuti,
ch’è molto men de la vergogna il danno:

ché, per parer filosofi e saputi,
se ne van per le strade unti e bisunti,
stracciati, sciatti, sudici e barbuti,

con chiome rabbuffate et occhi smunti,
con le scarpe disciolte e ‘l collar sciolto,
ricamati di zacchere e trapunti.

Cada il giorno a l’occaso o sorga all’orto,
sempre cogitabondi e sempre astratti,
hanno un color d’itterico e di morto;

discorron fra se stessi com’a i matti
facendo con la faccia e con le mani
mille smorfie ridicole e mill’atti;

per certi luoghi inusitati e strani
si mordon l’ugna e col grattarsi il capo
pensano a i Mammalucchi e a gl’Indiani;

e incerti di formar scanno o Priapo
con la rozza materia ch’hanno in testa,
di pensiero in pensier si fan da capo;

colla mente impregnata et indigesta,
senza aver fine alcuno e senza scopo,
van borbotando in quella parte e in questa.

Han di fantasmi un embrione, e dopo
d’aver pensato e ripensato un pezzo,
partoriscono i monti e nasce un topo;

ché, quando credi udir cose di prezzo
e stai con una grande espettazione,
gli senti dare in frascherie da sezzo:

la fava con le mele e col mellone,
la ricotta coi chiozzi e con la zucca,
l’anguille col savore e col cardone,

Buovo d’Antona, Drusiana e Giucca
son le materie onde l’altrui palpèbre
ogni scrittore infastidisce e stucca;

anzi dal mal francese e da la febre
e dall’istessa peste insin procacciano
a i nomi, a l’opre lor vita celèbre.

Questi son quei ch’a dissetar si cacciano
le labbra in mezzo al caballin condotto,
questi i poeti son che se l’allacciano!

O Febo, o Febo, e dove sei ridotto?
Questi gli studî son d’un gran cervello?
Sono questi i pensier d’un capo dotto?

Lodar le mosche, i grilli, il ravanello
e l’altre scioccherie ch’hanno composto
il Bernia, il Mauro, il Lasca et il Borchiello?

Per sublime materia hanno disposto,
dietro a Dion, Pitagora et Antemio,
lodar le rape, le cipolle e ‘l mosto.

In ogni frontispizio, ogni proemio
più del Clitorio han lodi le cantine,
ché un poeta è peccato essere astemio;

e le penne più illustri e pellegrine
van lodando in caratteri golosi
con Eufrone il tinello e le cucine.

Quindi è che i nomi lor son gli Oziosi,
gli Addormentati, i Rozzi e gli Umoristi,
gl’Insensati, i Fantastici e gli Ombrosi;

quindi è che, donde appena eran già visti
nell’Accademie i lauri e ne’ Licei,
insin gli osti oggidì ne son provisti.

Ite a dolervi poi, moderni Orfei,
che per i vostri affanni è già finita
la razza degli Augusti e de’ Pompei.

È ver che da le regge erra sbandita
la mendica virtù, ma i vostri modi
hanno la poesia guasta e avvilita;

le vostre invenzioni e gli episodi
son degne di taverne e lupanari
e voi ne pretendete e premi e lodi!

Altro ci vòl per farsi illustri e chiari
che straccar tutto il dì Bembi e Boccacci
e Fabriche del mondo e dizionari!

De’ vostri studi i gloriosi impacci,
l’occupazion de’ vostri ingegni aguzzi
facondia han sol da schiccherar versacci,

stirar con le tenaglie i concettuzzi,
rattacconar le rime con la cera,
ad ogni accento far gli equivocuzzi,

aver di grilli in capo una miniera,
far contrapposto ad ogni paroluccia,
e scrivere e stampare ogni chimera.

Ché s’uno i vostri versi oltre a la buccia
passa, giammai non vi ritrova un sale,
bisognosi d’impiastri e de la gruccia;

e creder di lasciar nome immortale
con portar frasche in Pindo, e unitamente
far d’asino, da mulo e vetturale!

Chi cerca di piacer solo al presente
non creda mai d’aver a far soggiorno
in mano a i dotti e a la futura gente;

anzi avrà cuna e tomba in un sol giorno.
Chi stampa avverta ch’a l’oblio non sono
né barche né cavalli di ritorno.

Componimento v’è ch’a primo suono
letto da chi ‘l compose fa schiamazzo,
che sotto gli occhi poi non è più buono;

eppure il mondo è sì balordo e pazzo
e fatti ha gli occhi così ignorantoni
che non scerne dal rosso il paonazzo:

applaude a i Bavi, a i Mevî arciasinoni,
che non avendo letto altro che Dante
voglion far sopra i Tassi i Salomoni;

e con censura sciocca et arrogante
al poema immortal del gran Torquato
di contraporre ardiscono il Morgante.

O troppo ardito stuol, mal consigliato!
Ch’un ottuso cervel voglia trafiggere
chi men degli altri in poetare ha errato!

Non t’incruscar tant’oltre e non t’affliggere
de’ carmi altrui ch’il tuo latrar non muove:
se infarinato sei, vatti a far friggere.

Son degli scarafaggi usate prove,
d’aquila i parti a invidiar rivolti,
il portar gli escrementi in grembo a Giove;

anco a la prisca età furono molti
che posposer l’Eneide a i versi d’Ennio:
secolo non fu mai privo di stolti.

Torno, o poeti, a voi. Dentro un biennio,
ben ch’avvezzo con Verre, i furti vostri
non conterebbe il retore d’Erennio.

O vergogna, o rossor de’ tempi nostri:
i sughi espressi da l’altrui fatiche
servono oggi di balsami e d’inchiostri!

Credonsi di celar queste formiche,
ch’han per musa e per dio seggio e taverna,
il gran rubato a le raccolte antiche;

e senza adoperar staccio o lanterna
si distingue con breve osservazione
la farina ch’è vecchia e par moderna.

Raro è quel libro che non sia un centone
di cose a questo e a quel tolte e rapite
sotto pretesto d’imitazione.

Aristofane, Orazio, ove sète ite
anime grandi? Ah, per pietade, un poco
fuor de’ sepolcri a questa luce uscite.

Oh con quanta ragion vi chiamo e invoco!
Ché s’oggi i furti recitar volessi,
Aristofane mio, verresti roco;

Orazio, e tu se questi autor leggessi
oh come grideresti: “Or sì ch’a i panni
gli stracci illustri son cuciti spessi!”

Ché, non badando al variar degli anni,
con la porpora greca e la latina
fansi i vestiti da secondi Zanni.

Gl’imitatori, in questa età meschina,
che battezzasti già “pecore serve”,
chiameresti uccellacci di rapina.

De le cose già dette ognun si serve
non già per imitarle, ma di peso
le trascrivon per sue penne proterve;

e questa gente a travestirsi ha preso
perché ne’ propri cenci ella s’avvede
ch’in Pindo le saría l’andar conteso.

Per vivere immortal dansi a le prede,
senza pena però, le genti accorte,
ché per vivere il furto si concede.

Né senza questo ancora han tutti i torti:
non s’apprezzano i vivi e non si citano
e passan sol l’autorità de’ morti;

e, se citati son, gli scherni inritano,
né s’han per penne degne e teste gravi
quei che su i testi vecchi non s’aítano.

Povero mondo mio, sono i tuoi bravi
chi svaligia il compagno e chi produce
le sentenze furate a i padri e a gli avi,

e ne le stampe sol vive e riluce
chi senza discrezion truffa e rubacchia,
e chi le carte altrui spoglia e traduce;

quindi taluno insuperbisce e gracchia
che, s’avesse a depor le penne altrui,
resterebbe d’Esopo la cornacchia.

Stampati i versi, e non si sa da cui,
e se bene a la moda ognun li guarda,
si rinfaccian tra lor “tu fosti, io fui”.

Per i moderni la fama è infingarda,
per gli antichi non ha stanchezza alcuna:
ogni peto, ogni accento è una bombarda.

La fama, in somma, è un colpo di fortuna:
Burchiello e Jacopone hanno il comento,
cotanto il mondo è regolato a luna!

Escono ognor cento bestiacce e cento
che sol ne’ libri altrui da l’anticaglia
del saper, del valor fanno argomento.

Ama questa dottissima canaglia
i rancidumi, e in Pindo mai non beve
se di vieto non sa l’onda castaglia;

nessuno stile è ponderoso e greve
se tarlate e stantie non ha le forme,
e li dan vita momentanea e lieve.

Non biasmo io già chi per esempii e norme
prende il Lazio e la Grecia; anch’io devoto
le lor memorie adoro e bacio l’orme;

dico di quei che sol di fango e loto
usan certi modacci a la dantesca
e speran di fuggir la man di Cloto.

Di barbarie servile e pedantesca
la di lor poesia cotanto è carca
ch’assai più dolce è una canzon tedesca;

ma questa il ciglio molto più m’inarca:
non è con loro alcuna voce etrusca
se non è nel Boccaccio o nel Petrarca.

E mentre vanno di parole in busca,
i toscani mugnai legislatori
li trattano da porci con la Crusca;

usan cotanti scrupoli e rigori
sopra una voce, e poi non si vergognano
di mille sciocchi e madornali errori.

Sotto le stampe va ciò che si sognano
senza che si riveda e che s’emendi,
perché solo a far grosso il libro agognano;

e se un’opera loro in man tu prendi,
mentre il iam satis ritrovar vorresti,
vedi per tutto il quidlibet audendi.

Sotto nomi speciosi e manti onesti,
per occultar le presunzion ventose,
porta in fronte ogni libro i suoi pretesti:

chi dice che scorrette e licenziose
andavan le sue figlie e però vuole
maritarle co’ torchi e farle spose;

un altro poscia si lamenta e duole
ch’un amico gli tolse la scrittura
e l’ha contro sua voglia esposta al sole;

quest’ampiamente si dichiara e giura
che, visti i parti suoi stroppiati e offesi,
per paterna pietà ne tolse cura;

questi, che per diletto i versi ha presi
per sottrarsi dal sonno i giorni estivi
e ch’ha fatto quel libro in quattro mesi.

Oh che scuse affettate, oh che motivi!
Son figlie d’ambizion queste modestie:
perché ti stimi assai così tu scrivi.

Ma peggio v’è: con danni e con molestie
s’ascoltan per gli studii e ne’ collegi
leggere al mondo umanità le bestie.

Stolidezza de’ principi e de’ regi,
che senza distinzion mandan del pari
con gl’ingegni plebei gl’ingegni egregi!

Qual meraviglia è poi che non s’impari?
Se i maestri son bufali ignoranti,
che possono insegnare a gli scolari?

E son forzati i miseri studianti,
di Quintiliano in cambio e di Gorgía,
sentir ragliare in cattedra i pedanti.

Da questo avvien ch’Euterpe e che Talia
sono state stroppiate; ognun prosume
in Pindo andar senza saper la via,

ché, de le scorte loro al cieco lume
mentre van dietro, d’Aganippe in vece
son condotti di Lete in riva al fiume.

Di questi sì che veramente lece
affermar, come io lessi in un capitolo,
ch’han le lettre attaccate con la pece!

Io non voglio svoltar tutto il gomitolo
di certi cervellacci pellegrini
che studian solamente a fare il titolo;

onde i lor libri, con quei nomi fini,
a prima faccia sembran titolati,
ch’esaminati poi son contadini.

Né potendo aspettar d’esser lodati
dal giudizio comune, escono alteri
da sonetti e canzoni accompagnati,

e n’empion da se stessi i fogli interi
sotto nome d’Incognito e d’Incerto,
e si dan de’ Vergili e de gli Omeri.

V’è poi talun, ch’avendo l’occhio aperto,
rifiuta i primi parti co’ secondi
e così da un error l’altro è scoperto.

Ma non so se più matti o se più tondi
si sian nel fare i libri o in dedicarli,
se di più errori o adulazion fecondi.

Di tempo o di destin più non si parli:
la colpa è lor se, non sapendo eleggere,
sen van per esca a i ragnateli e a i tarli.

Lor, non l’età, bisognería correggere,
che invece di lodare i Tolomei
fanno i poemi a quei che non san leggere,

e insino a i Battriani e i figulei
comprano da costor per quattro giulii
titol di mecenati e semidei.

Un poeta non c’è che non aduli,
e col Samosateno e con il Ceo
si mettono a cantar gli asini e i muli;

e con poche monete un uom plebeo,
degno d’esser cantato in archiloici,
fa di sé rimbombar l’Ebro e ‘l Peneo,

ché, dei cinici ad onta e degli stoici,
senza temer le lingue de’ satirici,
s’inalzano i Tiberi in versi eroici;

e ugualmente da tragici e da lirici
si fanno celebrare e Claudio e Vaccia,
e v’è chi per un pan fa panegirici.

A fabbricare elogi ognun si sbraccia
e in fine a gli scolar s’odon de’ Socrati
i tiranni adulare a faccia a faccia;

in lodar la virtù son tutti Arpocrati,
e di Busire poi per avarizia
i Policrati scrivono e gli Isocrati.

Termine omai non ha questa malizia
e dietro a Glauco per impir la pancia
tesson gli encomi insino a l’ingiustizia;

se vivesse colui che la bilancia
non ben certa d’Astrea ridusse uguale,
a quanti sgraffiaría gli occhi e la guancia!

Non vi stupite poi se ‘l gran morale
lusinghieri vi nomina e bugiardi,
e Democrito zucche senza sale.

Di Sparta già quegli animi gagliardi
da la città per pubblico partito
scacciaro i cuochi e voi per infingardi;

e ciò con gran ragion fu stabilito;
poiché se quelli incitano il palato
attendon questi a lusingar l’udito.

L’istesso Omer da l’attico senato
(de’ poeti il maestro, il padre, il dio)
fu tenuto per pazzo e condendato.

Oh risorgesse Atene al secol mio,
che seppe già con adeguata pena
a i Demagori fa’ pagare il fio!

Loda i Tersiti Favorino, e a pena
a i principi moderni un figlio nasce,
ch’in auguri i cantor stancan la vena:

quando Cinzia falcata in ciel rinasce
ha da servir per cuna, e col Zodiaco
hanno insieme le Zone a far le fasce;

quanti dal messicano a l’egiziaco
fiumi nobili son, quanti il gangetico
lido ne spinge al mar, quanti il siriaco,

tanti invocando va l’umor poetico
a battezzar talun, che per politica
cresce e vive ateista o muore eretico;

e canta, in vece di adoprar la critica,
ch’ei porterà la trionfante croce
per la terra giudea, per la menfitica;

che da la Tule a la tirinzia foce
reciderà le redivive teste
de l’eresia crescente a l’idra atroce;

che, tralasciata la maggion celeste,
ricalcheran gli abandonati calli
con Astrea le Virtù profughe e meste.

Per innalzare a un re statue e cavalli
ha fatto insino un certo letterato
sudare i fuochi a liquefar metalli,

e un altro, per lodar certo soldato,
dopo aver detto un Ercole secondo
et averlo ad un Marte assomigliato,

non parendoli aver toccato il fondo
soggiunse, e pose un po’ più su la mira:
a i bronzi tuoi serva di palla il mondo.

Oh bestialità! Come delira
l’umana mente! Né a guarirla basta
quant’elebero nasce in Anticira.

Divina verità, quanto sei guasta
da questi scioperati animi indegni,
che del falso e del ver fanno una pasta!

Predican per Atlanti e per sostegni
della terra cadente uomini tali
che son rovina poi di stati e regni.

S’un principe s’ammoglia, oh quanti, oh quali
si lasciano veder subito in flotta
epitalami e cantici nuziali!

Ogni poema poi mostra incorrotta
di qualche grande la genealogia,
dipinta in uno scudo o in qualche grotta;

e quel che fa spiccar questa pazzia
è che la razza effigiata e scolta
dichiaran sempre i magi in profezia.

Ma s’è in costoro ogni virtute accolta
come dite, o poeti, ond’è che ognuno
vi mira ignudi e lamentarvi ascolta?

Se senza aita uno scrittor digiuno
piange, questi non han virtude, o vero
quel letterato è querulo o importuno.

Deh cangiate oramai stile e pensiero
e tralasciate tanta sfacciataggine:
detti a un giusto furore i carmi il vero.

Chiamate a dire il ver Sunio o Timagine
già che l’uom fra gli obbrobri oggi s’alleva,
né timor vi ritenga o infingardaggine;

dite di non saper qual più riceva
seguaci, o l’Alcorano od il Vangelo,
o la strada di Roma o di Geneva;

dite che de la fede è spento il zelo
e ch’a prezzo d’un pan vender si vede
l’onor, la libertà, l’anima, il cielo;

che per tutto interesse ha posto il piede,
che da la Tartaría fino a la Betica
l’infame tirannia fissa ha la sede;

ch’ogni grande a far or suda e frenetica,
e ch’han fatta nel cor sì dura cotica
che la coscienza più non li solletica.

Deh prendete, prendete in man la scotica,
serrate gli occhi, et a chi tocca tocca:
provi il flagel questa canaglia zotica!

Tempo è omai ch’Angerona apri la bocca
a rinnovare i Saturnali antichi,
ché dai limiti il mal passa e trabocca.

Uscite fuor de’ favolosi intrichi,
accordate le cetre a i pianti, a i gridi
di tanti orfani, vedove e mendichi;

dite senza timor gli orrendi stridi
de la terra ch’in van geme abbattuta,
spolpata affatto da’ tiranni infidi;

dite la vita infame e dissoluta
che fanno tanti Roboam moderni,
la giustizia o negata o rivenduta;

dite ch’a i tribunali e ne’ governi
si mandan sempre gli avvoltoi rapaci;
dite l’oppression, dite gli scherni,

dite l’usure e tirannie voraci
che fa sopra di noi la turba immensa
de’ vivi Faraoni e de gli Arsaci;

dite che sol da’ principi si pensa
a bandir pesche e cacce, onde gli avari
su la fame comune alzan la mensa;

che con muri, con fossi e con ripari,
ad onta de le leggi di natura,
chiuse han le selve e confiscati i mari;

e ch’oltre a i danni di tempeste e arsura
un pover galantuom ch’ha quattro zolle
le paga al suo signor mezz’in usura;

dite che v’è talun sì crudo e folle
che, se ben de’ vassalli il sangue ingoia,
l’ingorde voglie non ha mai satolle;

dite che nel veder ognun s’annoia
ripiene le città di malfattori,
e non esserci poi un solo boia;

ch’ampio asilo per tutto hanno gli errori
e che con danno e pubblico cordoglio
mai si vedon puniti i traditori,

e ch’ad ogn’or degli Epuloni al soglio
i Lazzari cadenti e semivivi
mangian pane di segala e di gioglio;

dite ch’il sangue giusto inonda i rivi,
ch’esenti da la pena in faccia al cielo
son gl’iniqui, et i rei felici e vivi.

Queste cose v’inspiri un santo zelo,
né state a dir quanto diletta e piace
chioma dorata sotto un bianco velo.

A che frutta il cantar Cinzia e Salmace
e di Dafne la fuga o di Siringa,
i lamenti di Croco e di Smillace?

Più sublime materia un dì vi spinga
e si tralasci andar bugie cercando,
né più follie Genio o Murcea vi finga.

E chi gli anni desía passar cantando
lodi Vetturi invece di Battilli,
sante sapienze e non pazzie d’Orlando,

ch’omai le valli al risonar di Filli
vedon sazie di pianti, e di sospiri
i sentieri d’Aminta e d’Amarilli.

Per i vestiggi de gli altrui deliri
ognun Clori ha nel cor, Lilla ne’ labri,
ognun canta di spene e di martíri;

imitan tutti, ben che rozzi e scabri,
Properzio, Alceo, Calimaco e Catullo,
d’amorose follie maestri e fabri;

stilla l’ingegno a divenir trastullo
degli uomini da bene e ognuno attiensi
al suon d’Anacreonte e di Tibullo;

d’incontinente ardor gli Ovidi accensi
vergan d’affetti rei fogli lascivi
a stuzzicare, a impottanire i sensi,

e da gli scritti lor vani e nocivi,
ne le scuole cinnarie e di Cupido,
studian le Frine a spellacchiar corrivi.

Perché diletti più, l’onesta Dido
si finge una sgualdrina e per le chiese
serve d’offiziolo il Pastor fido.

Da qual donzella non son oggi intese
le Priapee, e a chi non piace e alletta
l’opre ben ch’impudiche e le sospese?

De’ versi fescennini ognun fa incetta
e di Curzio la sordida Moneide
si vede sempre mai letta e riletta;

son gl’ingegni oggidì da far Eneide
quei che premendo di Saffone i calli
scrivono la Vendemia e la Merdeide!

I lascivi fallofori e i tifalli
con inni scellerati e laude oscene
si tiran dietro i vil Menandri e i Galli.

Di voi, sacre Pimplee, timor mi tiene
mentre vi veggo sdrucciolare in chiasso
al pazzo arbitrio di chi va e chi viene;

l’orecchio aver bisognería di sasso
per non sentir l’oscenità de’ motti
ch’usan nel conversar sboccato e grasso.

Son questi insin nei pulpiti introdotti,
dond’è forzato un cristian che ingozzi
le facezie dei mimi e degli arlotti;

miseria in ver da piangere a signozzi
che, al par de’ palchi omai de’ saltimbanchi,
vanta il pergamo ancora i suoi Scatozzi.

Quando omai di cantar sarete stanchi
di donne, cavalier, d’arme e d’amore,
sprone d’impudicizie agli altrui fianchi?

A che mandar tante ignominie fuore
e far pretesti tutto quanto il die
che, s’oscena è la penna, è casto il core?

Tempi questi non son d’allegorie;
l’età che corre di tre cose è infetta:
di malizie, ignoranze e poesie.

Ho sentito contar che fu un trombetta
preso una volta da’ nemici in campo
mentre stava sonando a la veletta;

il qual, per ritrovar riparo e scampo,
dicea che solamente egli sonava
e ch’il suo ferro mai non tinse il campo.

Gli fu risposto allor ch’ei meritava
maggior pena però, poiché sonando
a le straggi, al furor gli altri inritava.

Intendetemi voi, voi che cantando
sète cagion che la pietà vacilla
e ‘l timore di Dio si ponga in bando:

da voi, da voi ne gli animi si stilla
la peste d’infinite corruttele,
agl’incendi voi dat’esca e favilla!

Basta dir che da un fiore tòsco e mèle
trae, secondo gl’instinti o buoni o rei,
ape benigna e vipera crudele.

O empi, o iniqui e quattro volte e sei:
pormi il tòsco a le labbra e poi, s’io pèro,
dir che maligni fûr gli affetti miei!

Questo è paralogismo menzognero:
non è simile al fiore il verso osceno,
né men l’ape e la vipera al pensiero;

non racchiudon quei fiori il tòsco in seno,
ma sono indifferenti: a i vostri versi
è qualitade intrinseca il veleno;

né l’ape o ‘l serpe trae dai fiori aspersi
il tòsco o ‘l mèl per ellezion: natura
gli sforza ad opre varie, atti diversi.

Ma l’alma, ch’è di Idio copia e figura,
libera nacque e non soggiace a forza,
ben che legata in questa spoglia impura;

opera in sua ragione, e nulla sforza
l’arbitrio suo, che volontario elegge
ciò ch’essa fa ne la terrena scorza;

ma perché danno a lei consiglio e legge,
nel conoscer le cose, i sensi frali,
facilmente ella cade e mal si regge:

e voi, sirene perfide e infernali,
le fabricate con un rio diletto
il precepizio al piede e ‘l visco all’ali.

Non ha la poesia più d’un oggetto;
il dilettare è un mezzo: ella ha per fine
sedar la mente e moderar l’affetto;

ella prima addolcì l’alme ferine,
e n’insegnò, soave allettatrice,
con le favole sue l’opre divine;

ella, figlia di Idio, mostrò felice
il suo fattore al mondo, e poscia adulta
fu di filosofia madre e nutrice.

E in vece d’essere oggi ornata e culta
di dottrine santissime, disposti
son sempre i vizi e la ragion sepulta;

anzi, con esecrandi contrapposti,
oggi il dar del divino è cosa trita
a gli sporchi Aretini, a gli Ariosti.

Dunque chi più la mente al vizio incíta
avrà titol celeste? Ah venghi meno,
e vanità sì rea resti sopita!

Udite un Agostin, di Dio ripieno,
ch’ebri d’error vi pubblica e palesa,
e sacrileghi e pazzi un Damasceno.

L’iniqua poesia la traccia ha presa
de gli empii Macchiavelli e de gli Erasmi,
e di chi separò Cristo e la Chiesa.

A che vantar dal ciel gli entusiasmi,
se con maniera poi profana e ria
da miniere d’onor traete i biasmi?

Scrivere a voi non par con leggiadria,
buffonacci superbi et ateisti,
se non entrate in chiasso o in sacrestia.

D’alme ingannate fa maggiori acquisti
per opra vostra il popolato inferno:
così Parnaso ancora ha gli Antecristi.

Pensate forse ch’il flagello eterno
non punisca le colpe, o pur credete
che de gli eventi il caso abbia il governo?

Se la galea, gli essigli e le secrete
e se la forca aprì l’ultima scena
a i poeti giammai, ben lo sapete;

sfregiato il volto e livida la schiena,
a quanti han fatto dir con quel di Sorga
ch’il furor letterato a guerra mena!

Deh cangiate tenore e ‘l mondo scorga
candor su i vostri fogli, e maestosa
la già morta pietade in voi risorga;

sia dolce il vostro stile, onde gioiosa
corra la terra a lui, ma serba intanto
fra il dolce suo la medicina ascosa;

sia vago perché alletti, e casto e santo
perché insegni al costume: è sol perfetto
quando diletta et ammaestra il canto;

sia del vostro sudor virtù l’oggetto,
ché mentre queste atrocità cantate
d’un insano furor v’infiamma Aletto,

ché se gli allori e l’edere v’han date
è perché avete in testa un gran rottorio
e i fulmini dal cielo in voi chiamate.

E poi, che giova aver plettro d’avorio
se quasi ogni poeta in grembo al duolo
a le fatiche sue canta il mortorio?

A che di libri più crescer lo stuolo?
Pur ch’insegnasse a vivere e a morire,
soverchiarebbe al mondo un libro solo.

Rimoderate dunque il vostro ardire,
ché rarissimi son quei che si leggono
et uno in mille ne suol riuscire;

a l’immortalità tutti non reggono:
fra le tarme e di polvere coperti,
i libri et i libei marcir si veggono.

La vostra fama è dubbia, i biasmi certi,
e in questi tempi sordidi et ingiusti
pronti so’ i Galbi, e i Mecenati incerti,

poiché a scorno d’i principi vetusti
in vece di Catoni e Anasimandri
s’amano gl’ignoranti e i bellimbusti;

e son gli Efestion degli Alessandri
i becchi e i parasiti indegni e vili,
e prezzati i Taurei più che i Lisandri;

e in cambio degli Orazi e de’ Vergili
danzano in corte baldanzosi e lieti
i branchi de’ Clisofi e de’ Crobili.

Stiman più i regi stolidi e indiscreti
d’un’istriona un trillo, una cadenza,
ch’i sudori de’ saggi e de’ poeti;

spenta già di quei grandi è la semenza
che in distinguere usaro ogni sapere
da i marroni a i Maron la differenza.

Non speri il mondo più di rivedere
l’eroe di Pella, che dormir fu visto
e de l’opre d’Omer farsi origliere;

de’ dotti ognuno allor giva provvisto,
e vantava Artaserse un grand’impero
quando facea d’un letterato acquisto.

L’istesso Dionisio, ancor ch’altero,
per le pubbliche vie di Siracusa
a Platon fe’ da servo e da cocchiero.

Ma dove, dove mi trasporti, o Musa?
Orecchio ha il mondo sol per Lesbia e Taide:
ragionar di virtude oggi non s’usa.

Solo invaghita di Giacinto e Laide,
stufa è di versi quest’età che corre:
secoli da fuggir ne la Tebaide,

tempi più da tacer che da comporre.



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