Ugo Foscolo (1778-1827) 

A Luigia Pallavicina, caduta da cavallo

I balsami beati
          Per te Grazie apprestino,
          Per te i lini odorati
          Che a Citerea porgeano
          Quando profano spino
Le punse il piè divino,

Quel dì che insana empiea
          Il sacro Ida di gemiti,
          E col crine tergea
          E bagnava di lacrime
          Il sanguinoso petto
          Al Ciprio giovinetto.

Or te piangon gli amori,
          Te fra le dive Liguri
          Regina e diva! e fiori
          Votivi all’ara portano
          D’onde il grand’arco suona
          Del figlio di Latona.

E te chiama la danza
          Ove l’aure portavano
          Insolita fragranza,
          Allor che a’ nodi indocile
          La chioma al roseo braccio
          Ti fu gentile impaccio.

Tal nel lavacro immersa,
          Che fior, dall’Eliconio
          Clivo cadendo, versa,
          Palla dall’elmo i liberi
          Crin su la man che gronda
          Contien fuori dell’onda.

Armonïosi accenti
          Dal tuo labbro volavano,
          E dagli occhi ridenti
          Traluceano di Venere
          I disdegni e le paci,
          La speme, il pianto e i baci.

Deh! perchè hai le gentili
          Forme e l’ingegno docile
          Vôlto a studi virili?
          Perchè non dell’Aonie
          Seguivi, incauta, l’arte,
          Ma i ludi aspri di Marte?

Invan presaghi i venti
          Il polveroso agghiacciano
          Petto e le reni ardenti
          Dell’inquïeto alipede,
          Ed irritante il morso
          Accresce impeto al corso.

Ardon gli sguardi, fuma
La bocca, agita l’ardua
          Testa, vola la spuma,
          Ed i manti volubili
          Lorda, e l’incerto freno,
          Ed il candido seno;

E il sudor piove, e i crini
          Sul collo irti svolazzano,
          Suonan gli antri marini
          Allo incalzato scalpito
          Della zampa che caccia
          Polve e sassi in sua traccia.

Già dal lito si slancia
          Sordo ai clamori e al fremito;
          Già già fino alla pancia
          Nuota . . . e ingorde si gonfiano
          Non più memori l’acque
          Che una Dea da lor nacque:

Se non che il Re dell’onde,
          Dolente ancor d’Ippolito,
          Surse per le profonde
          Vie dal Tirreno talamo,
          E respinse il furente
          Col cenno onnipotente.

Quel dal flutto arretrosse
          Ricalcitrando, e, orribile!
          Sovra l’anche rizzosse;
          Scuote l’arcion, te misera
          Su la pietrosa riva
          Strascinando mal viva.

Pera chi osò primiero
          Discortese commettere
          A infedele corsiero
          L’agil fianco femineo,
          E aprì con rio consiglio
          Nuovo a beltà periglio!

Chè or non vedrei le rose
          Del tuo volto sì languide;
          Non le luci amorose
          Spïar ne’ guardi medici
          Speranza lusinghiera
          Della beltà primiera.

Di Cintia il cocchio aurato
          Le cerve un dì traéno,
          Ma al ferino ululato
          Per terrore insanirono,
          E dalla rupe etnea
          Precipitâr la Dea.

Gioìan d’invido riso
          Le abitatrici olimpie,
          Perchè l’eterno viso,
          Silenzïoso e pallido,
Cinto apparìa d’un velo
          Ai conviti del cielo;

Ma ben piansero il giorno
          Che dalle danze efesie
          Lieta facea ritorno
Fra le devote vergini,
          E al ciel salìa più bella
          Di Febo la sorella.



Alla amica risanata

Qual dagli antri marini
          L’astro più caro a Venere
          Co’ rugiadosi crini
          Fra le fuggenti tenebre
          Appare, e il suo vïaggio
          Orna col lume dell’eterno raggio.

Sorgon così tue dive
          Membra dall’egro talamo,
          E in te beltà rivive,
          L’aurea beltate ond’ebbero
          Ristoro unico a’ mali
          Le nate a vaneggiar menti mortali.

Fiorir sul caro viso
          Veggo la rosa; tornano
I grandi occhi al sorriso
          Insidïando; e vegliano
          Per te in novelli pianti
          Trepide madri, e sospettose amanti.

Le Ore che dianzi meste
          Ministre eran de’ farmachi,
          Oggi l’indica veste,
          E i monili cui gemmano
          Effigïati Dei
          Inclito studio di scalpelli achei.

E i candidi coturni
          E gli amuleti recano
          Onde a’ cori notturni
          Te, Dea, mirando obbliano
          I garzoni le danze,
          Te principio d’affanni e di speranze.

O quando l’arpa adorni
          E co’ novelli numeri
          E co’ molli contorni
          Delle forme che facile
          Bisso seconda, e intanto
          Fra il basso sospirar vola il tuo canto.

Più periglioso; o quando
          Balli disegni, e l’agile
          Corpo all’aure fidando,
Ignoti vezzi sfuggono
          Dai manti, e dal negletto
          Velo scomposto sul sommosso petto.

All’agitarti, lente
          Cascan le trecce, nitide
          Per ambrosia recente,
          Mal fide all’aureo pettine
          E alla rosea ghirlanda
          Che or con l’alma salute April ti manda.

Così ancelle d’Amore
          A te d’intorno volano
          Invidiate l’Ore;
          Meste le Grazie mirino
          Chi la beltà fugace
          Ti membra, e il giorno dell’eterna pace.

Mortale guidatrice
          D’oceanine vergini,
          La Parrasia pendice
          Tenea la casta Artemide,
          E fea terror di cervi
          Lungi fischiar d’arco cidonio i nervi.

Lei predicò la fama
          Olimpia prole; pavido
          Diva il mondo la chiama,
          E le sacrò l’Elisio
Soglio, ed il certo têlo,
          E i monti, e il carro della luna in cielo.

Are così a Bellona,
          Un tempo invitta amazzone,
          Die’ il vocale Elicona;
          Ella il cimiero e l’egida
          Or contro l’Anglia avara
          E le cavalle ed il furor prepara.

E quella a cui di sacro
          Mirto te veggo cingere
          Devota il simolacro,
          Che presiede marmoreo
          Agli arcani tuoi lari
          Ove a me sol sacerdotessa appari,

Regina fu; Citera
          E Cipro ove perpetua
          Odora primavera
          Regnò beata, e l’isole
          Che col selvoso dorso
          Rompono agli euri e al grande Ionio il corso.

Ebbi in quel mar la culla,
          Ivi era ignudo spirito
Di Faon la fanciulla,
          E se il notturno zeffiro
          Blando su i flutti spira,
Suonano i liti un lamentar di lira.


Ond’io, pien del nativo
          Aër sacro, su l’itala
          Grave cetra derivo
          Per te le corde eolie,
          E avrai, divina, i voti
          Fra gl’inni miei delle insubri nipoti.



A Zacinto 

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

All’Italia 

Te nutrice alle muse, ospite e Dea
le barbariche genti che ti han doma
nomavan tutte; e questo a noi pur fea
lieve la varia, antiqua, infame soma.

Ché se i tuoi vizi, e gli anni, e sorte rea
ti han morto il senno ed il valor di Roma,
in te viveva il gran dir che avvolgea
regali allori alla servil tua chioma.

Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste
reliquie estreme di cotanto impero;
anzi il Toscano tuo parlar celeste

ognor più stempra nel sermon straniero,
onde, più che di tua divisa veste,
sia il vincitor di tua barbarie altero.

Dei sepolcri 

A Ippolito Pindemonte
Deorum Manium iura sancta sunto

I
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove piú il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
né da te, dolce amico, udrò piú il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né piú nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell’amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a’ dí perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve
tutte cose l’obblío nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusïon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.
Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
fra ‘l compianto de’ templi acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d’lddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
contende. E senza tomba giace il tuo
sacerdote, o Talia, che a te cantando
nel suo povero tetto educò un lauro
con lungo amore, e t’appendea corone;
e tu gli ornavi del tuo riso i canti
che il lombardo pungean Sardanapalo,
cui solo è dolce il muggito de’ buoi
che dagli antri abdüani e dal Ticino
lo fan d’ozi beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,
fra queste piante ov’io siedo e sospiro
il mio tetto materno. E tu venivi
e sorridevi a lui sotto quel tiglio
ch’or con dimesse frondi va fremendo
perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio
cui già di calma era cortese e d’ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
vagolando, ove dorma il sacro capo
del tuo Parini? A lui non ombre pose
tra le sue mura la città, lasciva
d’evirati cantori allettatrice,
non pietra, non parola; e forse l’ossa
col mozzo capo gl’insanguina il ladro
che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse e famelica ululando;
e uscir del teschio, ove fuggia la luna,
l’úpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerëa campagna
e l’immonda accusar col luttüoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obblïate sepolture. Indarno
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
non sorge fiore, ove non sia d’umane
lodi onorato e d’amoroso pianto.

II
Dal dí che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
all’etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
ed are a’ figli; e uscían quindi i responsi
de’ domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religïon che con diversi riti
le virtú patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d’anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
fean pavimento; né agl’incensi avvolto
de’ cadaveri il lezzo i supplicanti
contaminò; né le città fur meste
d’effigïati scheletri: le madri
balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l’amato capo
del lor caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta
chiedente la venal prece agli eredi
dal santuario. Ma cipressi e cedri
di puri effluvi i zefiri impregnando
perenne verde protendean su l’urne
per memoria perenne, e prezïosi
vasi accogliean le lagrime votive.
Rapían gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi dell’uom cercan morendo
il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
amaranti educavano e vïole
su la funebre zolla; e chi sedea
a libar latte o a raccontar sue pene
ai cari estinti, una fragranza intorno
sentía qual d’aura de’ beati Elisi.
Pietosa insania che fa cari gli orti
de’ suburbani avelli alle britanne
vergini, dove le conduce amore
della perduta madre, ove clementi
pregaro i Geni del ritorno al prode
che tronca fe’ la trïonfata nave
del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d’inclite gesta
e sien ministri al vivere civile
l’opulenza e il tremore, inutil pompa
e inaugurate immagini dell’Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno,
nelle adulate reggie ha sepoltura
già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
morte apparecchi riposato albergo,
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l’amistà raccolga
non di tesori eredità, ma caldi
sensi e di liberal carme l’esempio.

III
A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta. Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande
che temprando lo scettro a’ regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;
e l’arca di colui che nuovo Olimpo
alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
sotto l’etereo padiglion rotarsi
piú mondi, e il Sole irradïarli immoto,
onde all’Anglo che tanta ala vi stese
sgombrò primo le vie del firmamento:
– Te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe’ lavacri
che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell’aer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d’oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi:
e tu prima, Firenze, udivi il carme
che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
e tu i cari parenti e l’idïoma
désti a quel dolce di Calliope labbro
che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
d’un velo candidissimo adornando,
rendea nel grembo a Venere Celeste;
ma piú beata che in un tempio accolte
serbi l’itale glorie, uniche forse
da che le mal vietate Alpi e l’alterna
onnipotenza delle umane sorti
armi e sostanze t’ invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga ed all’Italia,
quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a’ patrii Numi, errava muto
ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo
desïoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l’austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno: e l’ossa
fremono amor di patria. Ah sí! da quella
religïosa pace un Nume parla:
e nutria contro a’ Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
la virtú greca e l’ira. Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,
vedea per l’ampia oscurità scintille
balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche
d’armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
silenzi si spandea lungo ne’ campi
di falangi un tumulto e un suon di tube
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

IV
Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
oltre l’isole egèe, d’antichi fatti
certo udisti suonar dell’Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe l’armi d’Achille
sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
giusta di glorie dispensiera è morte;
né senno astuto né favor di regi
all’Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l’onda incitata dagl’inferni Dei.
E me che i tempi ed il desio d’onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Troade inseminata
eterno splende a’ peregrini un loco,
eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
talami e il regno della giulia gente.
Però che quando Elettra udí la Parca
che lei dalle vitali aure del giorno
chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
mandò il voto supremo: – E se, diceva,
a te fur care le mie chiome e il viso
e le dolci vigilie, e non mi assente
premio miglior la volontà de’ fati,
la morta amica almen guarda dal cielo
onde d’Elettra tua resti la fama. –
Cosí orando moriva. E ne gemea
l’Olimpio: e l’immortal capo accennando
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
cenere d’Ilo; ivi l’iliache donne
sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
da’ lor mariti l’imminente fato;
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troia il dí mortale,
venne; e all’ombre cantò carme amoroso,
e guidava i nepoti, e l’amoroso
apprendeva lamento a’ giovinetti.
E dicea sospirando: – Oh se mai d’Argo,
ove al Tidíde e di Läerte al figlio
pascerete i cavalli, a voi permetta
ritorno il cielo, invan la patria vostra
cercherete! Le mura, opra di Febo,
sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troia avranno stanza
in queste tombe; ché de’ Numi è dono
servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto
di vedovili lagrime innaffiati,
proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti,
e santamente toccherà l’altare.
Proteggete i miei padri. Un dí vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far piú bello l’ultimo trofeo
ai fatati Pelídi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.

Forse perchè della fatal quïete

Forse perchè della fatal quïete
Tu sei l’immago, a me sì cara vieni.
O sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,

E quando del nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all’universo meni,
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor söavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier sull’orme
Che vanno al nulla eterno, e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme

Delle cure onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.


Torna alla pagina: “Le più belle poesie della lingua italiana”