Vincenzo Monti (1754-1828) 

Invito d’un solitario ad un cittadino

Tu che servo di corte ingannatrice
     I giorni traggi dolorosi e foschi,
     Vieni, amico mortal, fra questi boschi,
                         Vieni, e sarai felice.

Qui né di spose né di madri il pianto,
     Né di belliche trombe udrai lo squillo;
     Ma sol dell’aure il mormorar tranquillo
                         E degli augelli il canto.

Qui sol d’amor sovrana è la ragione,
     Senza rischio la vita e senza affanno;
     Ned altro mal si teme, altro tiranno,
                         Che il verno e l’aquilone.

Quando in volto ei mi sbuffa e col rigore
     De’ suoi fiati mi morde, io rido e dico:
     Non è certo costui nostro nemico
                         Né vile adulatore.

Egli del fango prometèo m’attesta
     La corruttibil tempra, e di colei
     Cui donaro il fatal vase gli dei
                         L’eredità funesta.

Ma dolce è il frutto di memoria amara;
     E meglio tra capanne e in umil sorte,
     Che nel tumulto di ribalda corte,
                         Filosofia s’impara.

Quel fior che sul mattin si grato olezza
     E smorto il capo su la sera abbassa
     Avvisa, in suo parlar, che presto passa
                         Ogni mortal vaghezza.

Quel rio che ratto all’oceàn cammina,
     Quel rio vuol dirmi che del par veloce
     Nel mar d’eternità mette la foce
                         Mia vita peregrina.

Tutte dall’elce al giunco han lor favella,
     Tutte han senso le piante: anche la rude
     Stupida pietra t’ammaestra, e chiude
                         Una vital fiammella.

Vieni dunque, infelice, a queste selve:
     Fuggi l’empie città, fuggi i lucenti
     D’oro palagi, tane di serpenti
                         E di perfide belve.

Fuggi il pazzo furor, fuggi il sospetto
     De’ sollevati; nel cui pugno il ferro
     Già non piaga il terren, non l’olmo e il cerro,
                         Ma de’ fratelli il petto.

Ahi di Giapeto iniqua stirpe! ahi diro
     Secol di Pirra! Insanguinata e rea
     Insanisce la terra, e torna Astrea
                         All’adirato empiro.

Quindi l’empia ragion del piú robusto,
     Quindi falso l’onor, falsi gli amici,
     Compre le leggi, i traditor felici,
                         E sventurato il giusto.

Quindi vedi calar tremendi e fieri
     De’ Druidi i nipoti, e violenti
     Scuotere i regni e sgomentar le genti
                         Con l’armi e co’ pensieri.

Enceladi novelli, anco del cielo
     Assalgono le torri; a Giove il trono
     Tentano rovesciar, rapirgli il tuono
                         E il non trattabil telo.

Ma non dorme lassi la sua vendetta,
     Già monta su l’irate ali del vento;
     Guizzar già veggo, mormorar già sento
                         Il lampo e la saetta.



Per la liberazione d’Italia 

Bella Italia, amate sponde,
     Pur vi torno a riveder!
     Trema in petto e si confonde
     L’alma oppressa dal piacer.

Tua bellezza, che di pianti
     Fonte amara ognor ti fu,
     Di stranieri e crudi amanti
     T’avea posta in servitú.

Ma bugiarda e mal sicura
     La speranza fia de’ re:
     Il giardino di natura,
     No, pei barbari non è.

Bonaparte al tuo periglio
     Dal mar libico volò;
     Vide il pianto del tuo ciglio,
     E il suo fulmine impugnò.

Tremâr l’Alpi, e stupefatte
     Suoni umani replicâr!
     E l’eterne nevi intatte
     D’armi e armati fiammeggiâr.

Del baleno al par veloce
     Scese il forte, e non s’udí:
     Ché men ratto il vol la voce
     Della Fama lo seguí.

D’ostil sangue i vasti campi
     Di Marengo intiepidîr,
     E de’ bronzi ai tuoni ai lampi
     L’onde attonite fuggîr.

Di Marengo la pianura
     Al nemico tomba diè.
     Il giardino di natura,
     No, pei barbari non è.

Bella Italia, amate sponde,
     Pur vi torno a riveder!
     Trema in petto e si confonde
     L’alma oppressa dal piacer.

Volgi l’onda al mar spedita,
     O de’ fiumi algoso re;
     Dinne all’Adria che finita
     La gran lite ancor non è;

Di’ che l’asta il franco Marte
     Ancor fissa al suol non ha,
     Di’ che dove è Bonaparte
     Sta vittoria e libertà.

Libertà, principio e fonte
     Del coraggio e dell’onor,
     Che, il piè in terra, in ciel la fronte,
     Sei del mondo il primo amor.

Questo lauro al crin circonda:
     Virtú patria lo nutrí,
     E Desaix la sacra fronda
     Del suo sangue colorí.

Su quel lauro in chiome sparte
     Pianse Francia e palpitò:
     Non lo pianse Bonaparte,
     Ma invidiollo e sospirò.

Ombra illustre, ti conforti
     Quell’invidia e quel sospir:
     Visse assai chi ’l duol de’ forti
     Meritò nel suo morir.

Ve’ sull’Alpi doloroso
     Della patria il santo amor,
     Alle membra dar riposo
     Che fur velo al tuo gran cor.

L’ali il tempo riverenti
     Al tuo piede abbasserà:
     Fremeran procelle e venti,
     E la tomba tua starà.

Per la cozia orrenda valle,
     Usa i nembi a calpestar.
     Torva l’ombra d’Anniballe
     Verrà teco a ragionar.

Chiederà di quell’ardito,
     Che secondo l’Alpe aprí.
     Tu gli mostra il varco a dito,
     E rispondi al fier cosí:

Di prontezza e di coraggio
     Te quel grande superò:
     Afro, cedi, al suo paraggio;
     Tu scendesti, ed ei volò.

Tu dell’itale contrade
     Aborrito destruttor:
     Ei le torna in libertade,
     E ne porta seco il cor.

Di civili eterne risse
     Tu a Cartago rea cagion:
     Ei placolle e le sconfisse
     Col sorriso e col perdon.

Che piú chiedi? Tu ruina,
     Ei salvezza al patrio suol.
     Afro, cedi e il ciglio inchina:
     Muore ogni astro in faccia al sol.



La bellezza dell’universo 

Del pensiero di Dio candida figlia,
Prima d’Amor germana, e di Natura
Amabile compagna e maraviglia.

Madre di dolci affetti, e dolce cura
Dell’uom, che varca pellegrino errante
Questa valle d’esilio e di sciagura,

Vuoi tu, diva Bellezza, un risonante
Udir inno di lode, e nel mio petto
Un raggio tramandar del tuo sembiante?

Senza la luce tua l’egro intelletto
Langue oscurato, e i miei pensier sen vanno
Smarriti in faccia al nobile subbietto.

Ma qual principio al canto, o Dea, daranno
Le Muse? e dove mai degne parole
Dell’origine tua trovar potranno?

Stavasi ancora la terrestre mole
Del Caos sepolta nell’abisso informe,
E sepolti con lei la Luna e il Sole,

E tu del sommo Facitor su l’orme
Spaziando, con esso preparavi
Di questo Mondo l’ordine e le forme.

V’era l’eterna Sapienza, e i gravi
Suoi pensier ti venìa manifestando
Stretta in santi d’amor nodi soavi.

Teco scorrea per l’Infinito; e quando
Dalle cupe del Nulla ombre ritrose
L’onnipossente creator comando

Sbucar fe’ tutte le mondane cose,
E al guerreggiar degli elementi infesti
Silenzio e calma inaspettata impose,

Tu con essa alla grande opra scendesti,
E con possente man del furibondo
Caos le tenebre indietro respingesti,

Chè con muggìto orribile e profondo
Là del Creato su le rive estreme
S’odon le mura flagellar del Mondo;

Simili a un mar che per burrasca freme,
E, sdegnando il confine, le bollenti
Onde solleva, e il lido assorbe e preme.

Poi ministra di luce e di portenti
Del ciel volando pei deserti campi
Seminasti di stelle i firmamenti:

Tu coronasti di sereni lampi
Al Sol la fronte; e per te avvien che il crine
Delle comete rubiconde avvampi;

Che agli occhi di quaggiù, spogliate alfine
Del reo presagio di feral fortuna,
Invìan fiamme innocenti e porporine.

Di tante faci alla silente e bruna
Notte trapunse la tua mano il lembo,
E un don le fèsti della bianca Luna;

E di rose all’Aurora empiesti il grembo,
Che poi sovra i sopiti egri mortali
Piovon di perle rugiadose un nembo.

Quindi alla terra indirizzasti l’ali,
Ed ebber dal poter de’ tuoi splendori
Vita le cose inanimate e frali.

Tumide allor di nutritivi umori
Si fecondar le glebe, e si fèr manto
Di molli erbette e d’olezzanti fiori.

Allor, degli occhi lusinghiero incanto,
Crebber le chiome ai boschi; e gli arbuscelli
Grato stillar dalle cortecce il pianto;

Allor dal monte corsero i ruscelli
Mormorando, e la florida riviera
Lambir freschi e scherzosi i venticelli.

Tutta del suo bel manto Primavera
Copria la terra ma la vasta idea
Del gran Fabbro compita ancor non era.

Di sua vaghezza inutile parea
Lagnarsi il suolo; e con più bel desiro
Sguardo e amor di viventi alme attendea.

Tu allor dipinta d’un sorriso, in giro
Dei quattro venti su le penne tese
L’aura mandasti del divin Sospiro.

La terra in sen l’accolse, e la comprese,
E un dolce movimento, un brividio
Serpeggiar per le viscere s’intese;

Onde un fremito diede, e concepio;
E il suol, che tutto già s’ingrossa, e figlia
La brulicante superficie, aprio.

Dalle gravide glebe, oh maraviglia!
Fuori allor si lanciò scherzante e presta
La vaga delle belve ampia famiglia.

Ecco dal suolo liberar la testa,
Scuoter le giubbe, e tutto uscir d’un salto
Il biondo imperator della foresta:

Ecco la tigre, e il leopardo in alto
Spiccarsi fuora della rotta bica,
E fuggir nelle selve a salto a salto:

Vedi sotto la zolla, che l’implica,
Divincolarsi il bue, che pigro e lento
Isviluppa le gran membra a fatica:

Vedi pien di magnanimo ardimento
Sovra i piedi balzar ritto il destriero,
E nitrendo sfidar nel corso il vento;

Indi il cervo ramoso, ed il leggiero
Daino fugace, e mille altri animanti,
Qual mansueto, e qual ritroso e fiero.

Altri per valli e per campagne erranti,
Altri di tane abitator crudeli,
Altri dell’uomo difensori e amanti.

E lor di macchia differente i peli
Tu di tua mano dipingesti, o Diva,
Con quella mano, che dipinse i cieli.

Poi de’ color più vaghi, onde l’estiva
Stagion delle campagne orna l’aspetto,
E de’ freschi ruscei smalta la riva,

L’ale spruzzasti al vagabondo insetto,
E le lubriche anella serpentine
Del più caduco vermicciuol negletto.

Nè qui ponesti all’opra tua confine;
Ma vie più innanzi la mirabil traccia
Stender ti piacque dell’idee divine.

Cinta adunque di calma e di bonaccia
Delle marine interminabil onde
Lanciasti un guardo su l’azzurra faccia.

Penetrò nelle cupe acque profonde
Quel guardo, e con bollor grato Natura
Intiepidille, e diventar feconde;

E tosto vari d’indole e figura
Guizzaro i pesci, e fin dall’ime arene
Tutta increspar la liquida pianura;

I delfin snelli colle curve schiene
Uscir danzando; e mezzo il mar copriro
Col vastissimo ventre orche e balene.

Fin gli scogli e le sirti allor sentìro
Il vigor di quel guardo e la dolcezza,
E di coralli e d’erbe si vestìro.

Ma che? Non son, non sono alma Bellezza,
Il mar, le belve, le campagne, i fonti
Il sol teatro della tua grandezza.

Anche sul dorso dei petrosi monti
Talor t’assidi maestosa, e rendi
Belle dell’alpi le nevose fronti:

Talor sul giogo abbrustolato ascendi
Del fumante Etna, e nell’orribil veste
Delle sue fiamme ti ravvolgi e splendi.

Tu del nero aquilon su le funeste
Ale per l’aria alteramente vieni,
E passeggi sul dorso alle tempeste:

Ivi spesso d’orror gli occhi sereni
Ti copri, e mille intorno al capo accenso
Rugghiano i tuoni, e strisciano i baleni.

Ma sotto il vel di tenebror sì denso
Non ti scorge del vulgo il debil lume,
Che si confonde nell’error del senso.

Sol ti ravvisa di Sofia l’acume,
Che nelle sedi di Natura ascose
Ardita spinge del pensier le piume:

Nel danzar delle stelle armoniose
Ella ti vede, e nell’occulto amore,
Che informa, e attragge le create cose:

Te ricerca con occhio indagatore
Di botaniche armato acute lenti
Nelle fibre or d’un’erba ed or d’un fiore:

Te dei corpi mirar negli elementi
Sogliono al gorgoglio d’acre vasello
I Chimici curvati e pazienti:

Ma più le tracce del divin tuo bello
Discopre la sparuta Anotomia
Allorchè armata di sottil coltello

I cadaveri incide, e l’armonia
Delle membra rivela, e il penetrale
Di nostra vita attentamente spia.

O uomo, o del divin dito immortale
Ineffabil lavor, forma, e ricetto
Di spirto e polve moribonda e frale,

Chi può cantar le tue bellezze? Al petto
Manca la lena, e il verso non ascende,
Tanto, che arrivi all’alto mio concetto.

Fronte, che guarda il cielo, e al cielo tende;
Chioma, che sopra gli omeri cadente
Or bionda, or bruna il capo orna, e difende;

Occhio, dell’alma interprete eloquente,
Senza cui non avria dardi e faretra
Amor, nè l’ali, nè la face ardente;

Bocca, dond’esce il riso, che penetra
Dentro i cuori, e l’accento si disserra,
Ch’or severo comanda, or dolce impetra;

Mano, che tutto sente, e tutto afferra,
E nell’arti incallisce, e ardita e pronta
Cittadi innalza, e opposti monti atterra;

Piede, su cui l’uman tronco si ponta,
E parte e riede, e or ratto ed or restio
Varca pianure, e gioghi aspri sormonta;

E tutta la persona entro il cuor mio
La maraviglia piove, e mi favella
Di quell’alto Saper, che la compio.

Taccion d’amor rapiti intorno ad ella
La terra, il cielo: ed io son io, v’è sculto,
Delle create cose la più bella.

Ma qual nuovo d’idee dolce tumulto!
Qual raggio amico delle membra or viene
A rischiararmi il laberinto occulto?

Veggo muscoli ed ossa, e nervi e vene,
Veggo il sangue e le fibre, onde s’alterna
Quel moto, che la vita urta e mantiene;

Ma nei legami della salma interna,
Ammiranda prigion! cerco, e non veggio
Lo spirto, che la move e la governa.

Pur sento io ben che quivi ha stanza e seggio,
E dalla luce di ragion guidato
In tutte parti il trovo, e lo vagheggio.

O spirto, o immago dell’Eterno, e fiato
Di quelle labbra, alla cui voce il seno
Si squarciò dell’abisso fecondato,

Dove andar l’innocenza, ed il sereno
Della pura beltà, di cui vestito
Discendesti nel carcere terreno?

Ahi, misero! t’han guasto e scolorito
Lascivia, ambizion, ira ed orgoglio,
Che alla colpa ti fero il turpe invito!

La tua ragione trabalzar dal soglio,
E lacero, deluso ed abbattuto
T’abbandonar nell’onta e nel cordoglio,

Siccome incauto pellegrin caduto
Nella man de’ ladroni, allorchè dorme
Il mondo stanco e d’ogni luce muto.

Eppur sul volto le reliquie e l’orme,
Fra il turbo degli affetti e la rapina,
Serbi pur anco dell’antiche forme:

Ancor dell’alta origine divina
I sacri segni riconosco; ancora
Sei bello e grande nella tua rovina.

Qual ardua antica mole, a cui talora
La folgore del cielo il fianco scuota,
Od il tempo, che tutto urta e divora,

Piena di solchi, ma pur salda e immota
Stassi, e d’offese e d’anni carca aspetta
Un nemico maggior, che la percota.

Fra l’eccidio e l’orror della soggetta
Colpevole Natura, ove l’immerse
Stolta lusinga e una fatal vendetta,

Più bella intanto la Virtude emerse,
Qual astro, che splendor nell’ombre acquista,
E in riso i pianti di quaggiù converse.

Per lei gioconda, e lusinghiera in vista
S’appresenta la morte, e l’amarezza
D’ogni sventura col suo dolce è mista:

Lei guarda il Ciel dalla superna altezza
Con amanti pupille; e per lei sola
S’apparenta dell’uomo alla bassezza.

Ma dove, o Diva del mio canto, vola
L’audace immaginar? dove il pensiero
Del tuo Vate guidasti e la parola?

Torna, amabile Dea, torna al primiero
Cammin terrestro, nè mostrarti schiva
Di minor vanto, e di minore impero.

Torna e se cerchi errante e fuggitiva
Devoti per l’Europa animi ligi,
E tempio degno di sì bella Diva,

Non t’aggirar del morbido Parigi
Cotanto per le vie, nè su le sponde
Della Neva, dell’Istro e del Tamigi.

Volgi il guardo d’Italia alle gioconde
Alme contrade, e per miglior cagione
Del fiume Tiberin fermati all’onde.

Non è straniero il loco, e la magione.
Qui fu dove dal Cigno Venosino
Vagheggiar ti lasciasti, e da Maroni;

E qui reggesti del Pittor d’Urbino
I sovrani pennelli, e di quel d’Arno
Michel, più che mortale Angel divino

Ferve d’alme sì grandi, e non indarno,
Il genio redivivo. Al suol Romano
D’Augusto i tempi e di Leon tornarno.

Vedrai stender giulive a te la mano
Grandezza e Maestà, tue suore antiche,
Che ti chiaman da lungi in Vaticano.

T’infioreranno le bell’Arti amiche
La via dovunque volgerai le piante,
Te propizia invocando alle fatiche:

Per te all’occhio divien viva e parlante
La tela e il masso; ed il pensiero è in forsi
Di crederlo insensato o palpitante:

Per te di marmi i duri alpestri dorsi
Spoglian le balze tiburtine, e il monte,
Che Circe empieva di leoni e d’orsi;

Onde poi mani architettrici e pronte
Di moli aggravan la latina arena
D’eterni fianchi, e di superba fronte:

Per te risuona la notturna scena
Di possente armonia, che l’alme bea,
E gli affetti lusinga ed incatena;

E questa Selva, che la selva Ascrea
Imita, e suona di Febeo concento,
Tutta è spirante del tuo nume, o Dea:

E questi lauri, che tremar fa il vento,
E queste che premiam tenere erbette
Sono d’un tuo sorriso opra e portento;

E tue pur son le dolci canzonette,
Che ad Imeneo cantar dianzi s’intese
L’Arcade schiera su le corde elette.

Stettero al grato suon l’aure sospese,
E il bel Parrasio a replicar fra nui
di Luigi, e Costanza il nome apprese.

Ambo cari a te sono, e ad ambidui
Su l’amabil sembiante un feritore
Raggio imprimesti de’ begli occhi tui;

Raggio, che prese poi la via del core,
E di virtù congiunto all’aurea face
Fe’ nell’alme avvampar quella d’Amore.

Vien dunque, amica Diva. Il Tempo edace
Fatal nemico, colla man rugosa
Ti combatte, ti vince, e ti disface.

Egli il color del giglio e della rosa
Toglie alle gote più ridenti, e stende
Dappertutto la falce ruinosa.

Ma se teco virtù s’arma, e discende
Nel cuor dell’uomo ad abitar sicura,
Passa il veglio rapace, e non t’offende;

E solo, allorchè fia che di Natura
Ei franga la catena, e urtate e rotte
Dell’Universo cadano le mura,

E spalancando le voraci grotte
L’assorba il Nulla, e tutto lo sommerga
Nel muto orror della seconda notte.

Al fracassato Mondo allor le terga
Darai fuggendo, e su l’eterea sede,
Ove non fia che Tempo ti disperga,

Stabile fermerai l’eburneo piede.
La bellezza dell’universo 

Del pensiero di Dio candida figlia,
Prima d’Amor germana, e di Natura
Amabile compagna e maraviglia.

Madre di dolci affetti, e dolce cura
Dell’uom, che varca pellegrino errante
Questa valle d’esilio e di sciagura,

Vuoi tu, diva Bellezza, un risonante
Udir inno di lode, e nel mio petto
Un raggio tramandar del tuo sembiante?

Senza la luce tua l’egro intelletto
Langue oscurato, e i miei pensier sen vanno
Smarriti in faccia al nobile subbietto.

Ma qual principio al canto, o Dea, daranno
Le Muse? e dove mai degne parole
Dell’origine tua trovar potranno?

Stavasi ancora la terrestre mole
Del Caos sepolta nell’abisso informe,
E sepolti con lei la Luna e il Sole,

E tu del sommo Facitor su l’orme
Spaziando, con esso preparavi
Di questo Mondo l’ordine e le forme.

V’era l’eterna Sapienza, e i gravi
Suoi pensier ti venìa manifestando
Stretta in santi d’amor nodi soavi.

Teco scorrea per l’Infinito; e quando
Dalle cupe del Nulla ombre ritrose
L’onnipossente creator comando

Sbucar fe’ tutte le mondane cose,
E al guerreggiar degli elementi infesti
Silenzio e calma inaspettata impose,

Tu con essa alla grande opra scendesti,
E con possente man del furibondo
Caos le tenebre indietro respingesti,

Chè con muggìto orribile e profondo
Là del Creato su le rive estreme
S’odon le mura flagellar del Mondo;

Simili a un mar che per burrasca freme,
E, sdegnando il confine, le bollenti
Onde solleva, e il lido assorbe e preme.

Poi ministra di luce e di portenti
Del ciel volando pei deserti campi
Seminasti di stelle i firmamenti:

Tu coronasti di sereni lampi
Al Sol la fronte; e per te avvien che il crine
Delle comete rubiconde avvampi;

Che agli occhi di quaggiù, spogliate alfine
Del reo presagio di feral fortuna,
Invìan fiamme innocenti e porporine.

Di tante faci alla silente e bruna
Notte trapunse la tua mano il lembo,
E un don le fèsti della bianca Luna;

E di rose all’Aurora empiesti il grembo,
Che poi sovra i sopiti egri mortali
Piovon di perle rugiadose un nembo.

Quindi alla terra indirizzasti l’ali,
Ed ebber dal poter de’ tuoi splendori
Vita le cose inanimate e frali.

Tumide allor di nutritivi umori
Si fecondar le glebe, e si fèr manto
Di molli erbette e d’olezzanti fiori.

Allor, degli occhi lusinghiero incanto,
Crebber le chiome ai boschi; e gli arbuscelli
Grato stillar dalle cortecce il pianto;

Allor dal monte corsero i ruscelli
Mormorando, e la florida riviera
Lambir freschi e scherzosi i venticelli.

Tutta del suo bel manto Primavera
Copria la terra ma la vasta idea
Del gran Fabbro compita ancor non era.

Di sua vaghezza inutile parea
Lagnarsi il suolo; e con più bel desiro
Sguardo e amor di viventi alme attendea.

Tu allor dipinta d’un sorriso, in giro
Dei quattro venti su le penne tese
L’aura mandasti del divin Sospiro.

La terra in sen l’accolse, e la comprese,
E un dolce movimento, un brividio
Serpeggiar per le viscere s’intese;

Onde un fremito diede, e concepio;
E il suol, che tutto già s’ingrossa, e figlia
La brulicante superficie, aprio.

Dalle gravide glebe, oh maraviglia!
Fuori allor si lanciò scherzante e presta
La vaga delle belve ampia famiglia.

Ecco dal suolo liberar la testa,
Scuoter le giubbe, e tutto uscir d’un salto
Il biondo imperator della foresta:

Ecco la tigre, e il leopardo in alto
Spiccarsi fuora della rotta bica,
E fuggir nelle selve a salto a salto:

Vedi sotto la zolla, che l’implica,
Divincolarsi il bue, che pigro e lento
Isviluppa le gran membra a fatica:

Vedi pien di magnanimo ardimento
Sovra i piedi balzar ritto il destriero,
E nitrendo sfidar nel corso il vento;

Indi il cervo ramoso, ed il leggiero
Daino fugace, e mille altri animanti,
Qual mansueto, e qual ritroso e fiero.

Altri per valli e per campagne erranti,
Altri di tane abitator crudeli,
Altri dell’uomo difensori e amanti.

E lor di macchia differente i peli
Tu di tua mano dipingesti, o Diva,
Con quella mano, che dipinse i cieli.

Poi de’ color più vaghi, onde l’estiva
Stagion delle campagne orna l’aspetto,
E de’ freschi ruscei smalta la riva,

L’ale spruzzasti al vagabondo insetto,
E le lubriche anella serpentine
Del più caduco vermicciuol negletto.

Nè qui ponesti all’opra tua confine;
Ma vie più innanzi la mirabil traccia
Stender ti piacque dell’idee divine.

Cinta adunque di calma e di bonaccia
Delle marine interminabil onde
Lanciasti un guardo su l’azzurra faccia.

Penetrò nelle cupe acque profonde
Quel guardo, e con bollor grato Natura
Intiepidille, e diventar feconde;

E tosto vari d’indole e figura
Guizzaro i pesci, e fin dall’ime arene
Tutta increspar la liquida pianura;

I delfin snelli colle curve schiene
Uscir danzando; e mezzo il mar copriro
Col vastissimo ventre orche e balene.

Fin gli scogli e le sirti allor sentìro
Il vigor di quel guardo e la dolcezza,
E di coralli e d’erbe si vestìro.

Ma che? Non son, non sono alma Bellezza,
Il mar, le belve, le campagne, i fonti
Il sol teatro della tua grandezza.

Anche sul dorso dei petrosi monti
Talor t’assidi maestosa, e rendi
Belle dell’alpi le nevose fronti:

Talor sul giogo abbrustolato ascendi
Del fumante Etna, e nell’orribil veste
Delle sue fiamme ti ravvolgi e splendi.

Tu del nero aquilon su le funeste
Ale per l’aria alteramente vieni,
E passeggi sul dorso alle tempeste:

Ivi spesso d’orror gli occhi sereni
Ti copri, e mille intorno al capo accenso
Rugghiano i tuoni, e strisciano i baleni.

Ma sotto il vel di tenebror sì denso
Non ti scorge del vulgo il debil lume,
Che si confonde nell’error del senso.

Sol ti ravvisa di Sofia l’acume,
Che nelle sedi di Natura ascose
Ardita spinge del pensier le piume:

Nel danzar delle stelle armoniose
Ella ti vede, e nell’occulto amore,
Che informa, e attragge le create cose:

Te ricerca con occhio indagatore
Di botaniche armato acute lenti
Nelle fibre or d’un’erba ed or d’un fiore:

Te dei corpi mirar negli elementi
Sogliono al gorgoglio d’acre vasello
I Chimici curvati e pazienti:

Ma più le tracce del divin tuo bello
Discopre la sparuta Anotomia
Allorchè armata di sottil coltello

I cadaveri incide, e l’armonia
Delle membra rivela, e il penetrale
Di nostra vita attentamente spia.

O uomo, o del divin dito immortale
Ineffabil lavor, forma, e ricetto
Di spirto e polve moribonda e frale,

Chi può cantar le tue bellezze? Al petto
Manca la lena, e il verso non ascende,
Tanto, che arrivi all’alto mio concetto.

Fronte, che guarda il cielo, e al cielo tende;
Chioma, che sopra gli omeri cadente
Or bionda, or bruna il capo orna, e difende;

Occhio, dell’alma interprete eloquente,
Senza cui non avria dardi e faretra
Amor, nè l’ali, nè la face ardente;

Bocca, dond’esce il riso, che penetra
Dentro i cuori, e l’accento si disserra,
Ch’or severo comanda, or dolce impetra;

Mano, che tutto sente, e tutto afferra,
E nell’arti incallisce, e ardita e pronta
Cittadi innalza, e opposti monti atterra;

Piede, su cui l’uman tronco si ponta,
E parte e riede, e or ratto ed or restio
Varca pianure, e gioghi aspri sormonta;

E tutta la persona entro il cuor mio
La maraviglia piove, e mi favella
Di quell’alto Saper, che la compio.

Taccion d’amor rapiti intorno ad ella
La terra, il cielo: ed io son io, v’è sculto,
Delle create cose la più bella.

Ma qual nuovo d’idee dolce tumulto!
Qual raggio amico delle membra or viene
A rischiararmi il laberinto occulto?

Veggo muscoli ed ossa, e nervi e vene,
Veggo il sangue e le fibre, onde s’alterna
Quel moto, che la vita urta e mantiene;

Ma nei legami della salma interna,
Ammiranda prigion! cerco, e non veggio
Lo spirto, che la move e la governa.

Pur sento io ben che quivi ha stanza e seggio,
E dalla luce di ragion guidato
In tutte parti il trovo, e lo vagheggio.

O spirto, o immago dell’Eterno, e fiato
Di quelle labbra, alla cui voce il seno
Si squarciò dell’abisso fecondato,

Dove andar l’innocenza, ed il sereno
Della pura beltà, di cui vestito
Discendesti nel carcere terreno?

Ahi, misero! t’han guasto e scolorito
Lascivia, ambizion, ira ed orgoglio,
Che alla colpa ti fero il turpe invito!

La tua ragione trabalzar dal soglio,
E lacero, deluso ed abbattuto
T’abbandonar nell’onta e nel cordoglio,

Siccome incauto pellegrin caduto
Nella man de’ ladroni, allorchè dorme
Il mondo stanco e d’ogni luce muto.

Eppur sul volto le reliquie e l’orme,
Fra il turbo degli affetti e la rapina,
Serbi pur anco dell’antiche forme:

Ancor dell’alta origine divina
I sacri segni riconosco; ancora
Sei bello e grande nella tua rovina.

Qual ardua antica mole, a cui talora
La folgore del cielo il fianco scuota,
Od il tempo, che tutto urta e divora,

Piena di solchi, ma pur salda e immota
Stassi, e d’offese e d’anni carca aspetta
Un nemico maggior, che la percota.

Fra l’eccidio e l’orror della soggetta
Colpevole Natura, ove l’immerse
Stolta lusinga e una fatal vendetta,

Più bella intanto la Virtude emerse,
Qual astro, che splendor nell’ombre acquista,
E in riso i pianti di quaggiù converse.

Per lei gioconda, e lusinghiera in vista
S’appresenta la morte, e l’amarezza
D’ogni sventura col suo dolce è mista:

Lei guarda il Ciel dalla superna altezza
Con amanti pupille; e per lei sola
S’apparenta dell’uomo alla bassezza.

Ma dove, o Diva del mio canto, vola
L’audace immaginar? dove il pensiero
Del tuo Vate guidasti e la parola?

Torna, amabile Dea, torna al primiero
Cammin terrestro, nè mostrarti schiva
Di minor vanto, e di minore impero.

Torna e se cerchi errante e fuggitiva
Devoti per l’Europa animi ligi,
E tempio degno di sì bella Diva,

Non t’aggirar del morbido Parigi
Cotanto per le vie, nè su le sponde
Della Neva, dell’Istro e del Tamigi.

Volgi il guardo d’Italia alle gioconde
Alme contrade, e per miglior cagione
Del fiume Tiberin fermati all’onde.

Non è straniero il loco, e la magione.
Qui fu dove dal Cigno Venosino
Vagheggiar ti lasciasti, e da Maroni;

E qui reggesti del Pittor d’Urbino
I sovrani pennelli, e di quel d’Arno
Michel, più che mortale Angel divino

Ferve d’alme sì grandi, e non indarno,
Il genio redivivo. Al suol Romano
D’Augusto i tempi e di Leon tornarno.

Vedrai stender giulive a te la mano
Grandezza e Maestà, tue suore antiche,
Che ti chiaman da lungi in Vaticano.

T’infioreranno le bell’Arti amiche
La via dovunque volgerai le piante,
Te propizia invocando alle fatiche:

Per te all’occhio divien viva e parlante
La tela e il masso; ed il pensiero è in forsi
Di crederlo insensato o palpitante:

Per te di marmi i duri alpestri dorsi
Spoglian le balze tiburtine, e il monte,
Che Circe empieva di leoni e d’orsi;

Onde poi mani architettrici e pronte
Di moli aggravan la latina arena
D’eterni fianchi, e di superba fronte:

Per te risuona la notturna scena
Di possente armonia, che l’alme bea,
E gli affetti lusinga ed incatena;

E questa Selva, che la selva Ascrea
Imita, e suona di Febeo concento,
Tutta è spirante del tuo nume, o Dea:

E questi lauri, che tremar fa il vento,
E queste che premiam tenere erbette
Sono d’un tuo sorriso opra e portento;

E tue pur son le dolci canzonette,
Che ad Imeneo cantar dianzi s’intese
L’Arcade schiera su le corde elette.

Stettero al grato suon l’aure sospese,
E il bel Parrasio a replicar fra nui
di Luigi, e Costanza il nome apprese.

Ambo cari a te sono, e ad ambidui
Su l’amabil sembiante un feritore
Raggio imprimesti de’ begli occhi tui;

Raggio, che prese poi la via del core,
E di virtù congiunto all’aurea face
Fe’ nell’alme avvampar quella d’Amore.

Vien dunque, amica Diva. Il Tempo edace
Fatal nemico, colla man rugosa
Ti combatte, ti vince, e ti disface.

Egli il color del giglio e della rosa
Toglie alle gote più ridenti, e stende
Dappertutto la falce ruinosa.

Ma se teco virtù s’arma, e discende
Nel cuor dell’uomo ad abitar sicura,
Passa il veglio rapace, e non t’offende;

E solo, allorchè fia che di Natura
Ei franga la catena, e urtate e rotte
Dell’Universo cadano le mura,

E spalancando le voraci grotte
L’assorba il Nulla, e tutto lo sommerga
Nel muto orror della seconda notte.

Al fracassato Mondo allor le terga
Darai fuggendo, e su l’eterea sede,
Ove non fia che Tempo ti disperga,

Stabile fermerai l’eburneo piede.

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